domenica 30 aprile 2017

Stealthing: una pratica non solo pericolosa, ma anche illegale

Parlare di diritto spesso e volentieri viene identificato con discussioni su massimi sistemi, schemi e concezioni astratte e norme che a volte poco o nulla hanno a che vedere con la vita quotidiana, da tanto raramente sono applicate... ma tale luogo comune si infrange quando si arriva alla consapevolezza che il diritto non è fatto di parole che restano astratte, bensì impone norme e regole che si intrecciano e delineano il confine tra il lecito e l'illecito, anche quando non prevede esplicitamente dei fenomeni nuovi che emergono a distanza anche di tempo dall'emanazione di una o più norme.
E questo è il caso anche di materie a volte anche molto delicate e scabrose quale la materia della libertà sessuale, che registra di recente una tendenza che sta avendo una sempre più preoccupante diffusione, ossia lo stealthing: riassuntivamente, questa pratica si può definire come l'avvio di un rapporto sessuale protetto tramite l'utilizzo di un preservativo, che poi però viene tolto all'insaputa del/della partner e di nascosto (da cui deriva il nome) durante l'atto stesso, per concludere il rapporto senza la precauzione inizialmente adottata. Pratica per cui vi è stata anche una recente condanna penale in Svizzera, che ben potrebbe trovare applicazione anche in Italia.
Senza addentrarsi troppo in materia di educazione sessuale, dovrebbe essere chiaro pressoché a chiunque che questa pratica non è solamente meschina e truffaldina, ma anche foriera di possibili conseguenze a lungo termine, tra cui gravidanze e malattie veneree, che possono essere trasmesse sia alla vittima dello stealthing sia anche viceversa a chi questa azione la pratica.
Eppure a quanto pare purtroppo così chiaro non è, altrimenti non si spiegherebbe l'arroganza con la quale la pratica non viene solo intrapresa, ma addirittura difesa ed elogiata come "diritto naturale maschile"... espressione quantomai infelice, se si considera come varie teorie e filosofie del diritto considerino il "diritto naturale" come quel tipo di ordinamento originario che è preesistente a qualsiasi società umana e che detta i principi fondamentali a cui poi gli ordinamenti sociali si ispirano per la redazione scritta delle varie norme che regolano la vita sociale. Pertanto anche solo ipotizzare che una simile pratica sia espressione di un fantomatico "diritto naturale maschile" equivarrebbe ad affermare una supposta naturale prerogativa di ogni maschio umano a poter essere un predatore in grado di spargere impunemente ed irresponsabilmente il proprio seme incurante di qualsiasi conseguenza, quando non ne potrebbe anzi andare fiero. Appare quindi del tutto evidente la gravità e l'assurdità dell'arroganza di un simile becero tentativo di giustificazione, che è tipica solo delle subculture più barbare e primitive e che nulla ha a che spartire con qualsiasi idea di diritto, non solo naturale.

Venendo ad inquadrare la materia dal punto di vista della legge italiana, bisogna innanzitutto partire dal disposto dell'art. 609 bis del Codice Penale, che è chiaro nell'indicare come sia considerata quale violenza sessuale la costrizione a subire atti sessuali non voluti dalla vittima, senza specificare che la violenza debba essere solo fisica, ma anzi ricomprendendo i casi di violenza psicologica e persino l'inganno con cui il consenso venga estorto. Quindi la norma, così come tutte quelle seguenti, non si limita a tutelare contro le aggressioni fisiche, ma incardina la tutela dell'intera libertà sessuale della persona sul consenso, che deve essere prestato in maniera valida e consapevole da entrambi i partner. Consenso che inoltre deve vertere su ogni dettaglio, ivi comprese le modalità ed i mezzi con cui consumare il rapporto.
Così intesa, la norma parrebbe richiedere che il consenso vi sia fin dall'inizio, ma la Cassazione ha più volte interpretato l'articolo citato e ne ha ampliato a più riprese la portata in tema di consenso, statuendo chiaramente come il consenso debba essere sempre presente e se questo dovesse mutare per qualsiasi motivo, la continuazione di un rapporto non sarebbe più consensuale e rientrerebbe nell'ambito della violenza sessuale prevista dal summenzionato art. 609 bis.
A tal proposito valga anche a chiarire ogni dubbio la recente massima della sentenza della III Sezione Penale della Corte di Cassazione, espressa nella sentenza 9221/2016:

Le costanti precisazioni di questa Corte Suprema sul tema dell’abuso sessuale determinato da un mutamento dell’originario consenso iniziale, fanno sì che anche una conclusione del rapporto sessuale, magari inizialmente voluto, ma proseguito con modalità sgradite o comunque dal partner, rientri a pieno titolo nel delitto di violenza sessuale.
Inoltre giova ribadire il fatto che una tale pratica può essere anche foriera non solo di possibili gravidanze indesiderate, bensì anche di malattie veneree di varia gravità e dalla pericolosità più o meno elevata per la salute.
Il dettaglio non è di secondo piano, perché la trasmissione di malattie in un modo siffatto non è una "semplice" disgrazia o una fatalità, bensì è un'azione pericolosa che l'ordinamento qualifica come "lesioni personali": occorre chiarire come, in senso tecnico, il reato citato non sia inteso dalla legge solo come conseguenza di un trauma o di percosse (che peraltro costituiscono un autonomo delitto previsto dall'art. 581 del Codice Penale) o di una qualsiasi azione meramente violenta, bensì come una qualsiasi malattia fisica o psichica arrecata ad un'altra persona, sia volontariamente sia colposamente. E la discriminante, in termini di quantità di pena a cui potrebbe andare incontro chiunque pratichi lo stealthing, è data sia dalla consapevolezza o meno della malattia venerea trasmessa al/alla partner sia da quanto la malattia stessa sia clinicamente grave. E se la malattia viene trasmessa intenzionalmente... semplicemente non ci sono attenuanti che tengano e difficilmente potrebbero essere riconosciute anche le onnipresenti attenuanti generiche.

Tutti questi reati, salvo rari e specifici casi, sono accomunati da un tratto distintivo: per poter essere perseguiti e mettere quindi i responsabili di questa pratica di fronte alle giuste conseguenze delle loro azioni, è necessaria una querela da parte di chi la subisca.
E nel caso di querela presentata per il reato principale, ovvero per la violenza sessuale, la querela rientra espressamente tra i casi di irrevocabilità: in altri termini, una volta presentato l'atto di querela, il responsabile non potrà pensare di cavarsela con un accordo (o peggio ancora con una minaccia) per far rimettere la querela e mettere tutto a tacere, ma dovrà difendersi al processo che ne conseguirà... se ne è capace.

In definitiva, fare sesso sicuro è una buona cosa, ma ancora più importante è farlo in buona fede e senza l'intenzione truffaldina e meschina di togliersi il preservativo durante il rapporto di nascosto o comunque senza che l'altra persona sia d'accordo con questo modo di agire.
Le conseguenze di un atto di stealthing potrebbero essere molteplici e tutte non proprio piacevoli: una gravidanza inattesa e non voluta (con tutte le responsabilità morali e civili derivanti dal concepimento), una o più malattie veneree e una querela per violenza sessuale e lesioni personali più o meno aggravate.

lunedì 24 aprile 2017

Il tentativo non è un'attenuante, ma un vero delitto

Quando si parla di tentativo in diritto, segnatamente in diritto penale, si ritiene spesso che si stia facendo riferimento ad un’attenuante di un delitto che non è stato realizzato. In realtà non c’è niente di più sbagliato.
Quando si parla di delitto tentato bisogna considerare il disposto di una norma generale, ovvero l’art. 56 del Codice Penale, che disciplina compiutamente proprio il tentativo. In base a tale norma, viene punito a titolo di tentativo il compimento di atti “idonei e non equivoci” a commettere un delitto tra quelli descritti nel Codice Penale o nelle ulteriori leggi a contenuto penale, ossia le cosiddette “norme complementari”.
Quella che viene punita è quindi l’intenzione non equivoca di commettere un delitto, intenzione che abbia abbastanza concretezza da poter mettere in atto una condotta criminosa che però, per una qualsiasi ragione, alla fine non viene portata a compimento. E viene punita non come delitto attenuato, bensì come fattispecie autonoma di reato, suscettibile quindi dell’applicazione di tutte le eventuali ulteriori circostanze aggravanti e/o attenuanti del caso: si potrebbe quindi parlare benissimo per esempio di un tentato omicidio aggravato da futili motivi.
Pertanto quando si procede per un tentato delitto, si procede in base all’art. 56 c.p. + art. del delitto specifico. Il fatto che la punizione sia prevista come attenuata di un terzo rispetto a quanto il codice preveda per il delitto consumato è una previsione generale che l’ordinamento ricollega al fatto che il delitto alla fine non si è compiuto, ma si è comunque verificato un evento pericoloso che solo per poco non si è tramutato in qualcosa di vietato dalla legge e che era comunque idoneo a realizzare un delitto.

C’è da aggiungere un particolare che è stato a lungo dibattuto ed è ancora incerto: è piuttosto dubbia la compatibilità tra il delitto tentato ed il delitto colposo.
A stretto tenore, la norma richiede la concorrenza di atti “idonei e non equivoci” a commettere volontariamente un crimine, mentre il delitto colposo è caratterizzato dall’assenza di volontarietà nella condotta delittuosa, derivate piuttosto dall’inosservanza di norme di sicurezza o anche solo di semplice prudenza e di buon senso. Risulta quindi difficile sostenere come un delitto non voluto possa essere tentato e quindi punito a titolo di un delitto di messa in pericolo di un bene tutelato dall’ordinamento.

Per completezza, va aggiunto che lo stesso art. 56 c.p. prevede anche due casi speciali, in cui la ragione per cui il delitto non si verifica risiede nello stesso autore materiale che lo avrebbe altrimenti portato a termine.
Il primo prende il nome di desistenza volontaria e si verifica quando colui che voleva commettere un delitto poi volontariamente rinuncia a compierlo. In tale ipotesi, la norma citata prevede che il potenziale autore del mancato reato risponda solo degli atti compiuti se questi ultimi siano configurabili come autonomi reati.
La seconda forma, trattata con maggior sfavore dall’ordinamento, prende il nome di recesso attivo e si verifica quando il potenziale autore del delitto non solo non lo compie, ma si adopera per impedire l’evento criminale che avrebbe voluto compiere: in tal modo il mancato reo risponderà ancora per delitto tentato, ma soggiacerà ad una pena ridotta della metà
La ragione di questa disparità di trattamento risiede nel fatto che nel caso della desistenza volontaria, chi tenta di compiere un delitto rinuncia a farlo prima che possa produrre un danno vero e proprio, quindi prima che la sua azione si traduca in un delitto; nel caso invece del recesso attivo, un danno in sé c'è stato e ha prodotto delle conseguenze materiali, ma il reato stesso non viene poi perfezionato, non viene completato e anzi l'autore del tentativo cerca di eliminare le conseguenze del suo gesto illecito.
Quindi è sempre bene pensare prima di agire... anche se certe azioni è meglio non tentarle proprio.

giovedì 20 aprile 2017

La diffamazione: cos'è veramente?

Spesso e volentieri la parola "diffamazione" viene comunemente avvertita come sinonimo più aulico del termine "calunnia" e quindi più in generale è ricollegata al concetto di "falsa accusa". In realtà non è propriamente così corretto l'accostamento concettuale e in termini di diritto la diffamazione è tutt'altro che collegata alla calunnia.
Sul tema dei falsi sinonimi la differenza era già stata affrontata e per maggior curiosità viene qui richiamata e nuovamente esposta, per dare un quadro generale sulla differenza di base tra "diffamazione", "calunnia" e (l'abrogato reato di) "ingiuria" contenuta nel Codice Penale.


La confusione che si è ingenerata in questo periodo richiede tuttavia di soffermarsi più accuratamente sul concetto stesso di diffamazione e chiarirne quindi la forma e l'applicazione della legge.
Come evidenziato dalla formulazione stessa del primo comma dell'art. 595 del Codice Penale, il reato in questione non ha nulla a che vedere con il lanciare false accuse, bensì riguarda la reputazione e in senso lato l'onore della persona offesa, che viene infangata da chi sparge voci sul conto di un soggetto non presente nel momento in cui vengono diffuse, non in grado di difendersi sul momento dalle parole che ne macchino l'onore e può quindi tutelarsi solo a posteriori mediante apposita querela da sporgere entro tre mesi dal momento in cui la diffamazione viene scoperta. E la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire in diverse occasioni che basta parlare anche solo con due persone allo stesso tempo per realizzare il requisito delle "più persone" e porre quindi in essere la condotta vietata.
Si capisce pertanto come lanciare "accuse false" abbia poca attinenza con la diffamazione intesa in senso di legge, ma bisogna prestare attenzione comunque ad un fatto non secondario: il secondo comma della norma citata determina una pena più grave per chi non solo sparge voci che macchiano la reputazione della persona assente, ma lo fa citando e additando un fatto specifico che riguardi la persona diffamata. Il reato in tal caso si verifica a prescindere dalla veridicità o dalla notorietà del fatto imputato, che, salvo casi particolari, non può nemmeno entrare a far parte del giudizio sulla diffamazione arrecata. Ciò avviene per una ragione specifica: ad essere tutelato dalla norma è l'onore della persona diffamata, ad essere tutelato è il decoro del soggetto, il suo buon nome e il suo diritto a non essere additato ed etichettato dalla comunità come una persona "sporca" in senso lato.
Vi è una sola parziale eccezione, una sola parziale scusante a tale attribuzione di fatti specifici: a norma dell'ultimo comma del successivo art. 596, chi imputi un fatto penalmente rilevante e per il quale vi sia un'effettiva condanna in giudizio non è punibile per tale asserzione... a meno che non esageri con i toni ad un punto tale da commettere un atto comunque diffamatorio, uno sproloquio dalla portata tale da risultare punibile nonostante il comportamento del diffamato sia effettivamente meritevole di punizione da parte dell'ordinamento.

Più in generale, il fatto non risulta punibile per la legge italiana in due casi molto specifici:
  • se la diffamazione è stata determinata da un fatto ingiusto della persona contro cui la si commette e subito dopo quello stesso fatto (e quindi in sostanza l'ordinamento non prende in considerazione sbotti e sfoghi subito dopo aver subito qualcosa che non si meritava di subire);
  • quando scritti e discorsi potenzialmente offensivi vengono pronunciati in giudizio dalle parti o dai loro avvocati... ed in tal caso l'ordinamento copre il fatto facendo cancellare, ove possibile, le espressioni offensive dagli atti e dai provvedimenti processuali (anche se ciò non pare esclude a priori eventuali responsabilità disciplinari).

Una menzione a parte la merita la cosiddetta "diffamazione a mezzo stampa": prevista dal terzo comma del citato art. 595, è la forma più grave del reato in questione e punita ogni qual volta i contenuti che infangano l'onore siano diffusi in forma scritta tramite mezzi di ampia diffusione. In tal modo la comunicazione diffamatoria avviene sempre nei confronti di un soggetto non in grado di rispondere alle offese, perché non presente né in grado di conoscerle tempestivamente, e viene divulgata contestualmente ad un numero indefinito e potenzialmente alto di persone.
La norma originale è stata creata in un tempo in cui le tecnologie telematiche non erano neanche lontanamente immaginabili, ma non per questo la ragion d'essere della norma viene meno di fronte ai nuovi mezzi: è infatti da tempo che la giurisprudenza ha adeguato l'applicazione della norma e ha pertanto equiparato alla stampa ogni piattaforma di diffusione e di divulgazione di contenuti ad un pubblico potenzialmente vasto, siano essi siti internet, forum o social network. Non deve quindi stupire il fatto che sia possibile finire nei guai per aver espresso la propria opinione online, sia essa un semplice commento denigratorio o una recensione non veritiera e fatta ad arte per screditare una persona fisica o un'attività commerciale dotata di soggettività giuridica.
E quel che poco viene tenuto in considerazione è il fatto che una diffusione tramite forma scritta sia molto più facilmente comprovabile di una diffusione orale di voci e malelingue. Come si suol dire, carta canta! Pure quella digitale.

lunedì 17 aprile 2017

Essere recidivi non è mai un bene

Può capitare nella vita di commettere qualche azione che sia penalmente rilevante e questa azione può essere realizzata con coscienza oppure può essere del tutto slegata dalla volontà del soggetto. E com'è noto, ad ogni azione corrisponde sempre una reazione e l'ordinamento reagisce alle azioni vietate con una sanzione da irrogare dopo un processo.
Ma cosa succede quando le condotte vietate sono più di una e peggio ancora vengono commesse volontariamente a distanza di tempo l'una dall'altra, senza essere collegate tra loro? A questa ipotesi risponde l'art. 99 del Codice Penale con la previsione dell'istituto della "recidiva".
Si tratta nientemeno che di un istituto che dal punto di vista dell'effetto sostanziale si può considerare come un'aggravante di un reato che però sia doloso, ovvero sia volontario, e susseguente ad un altro reato anch'esso doloso. Essere recidivi significa, in estrema sintesi, ricadere nell'errore di commettere volontariamente dei delitti a distanza di tempo.

La legge prevede tre forme di recidiva:
  • Semplice: si verifica quando vengono commessi due delitti non colposi e il primo è già stato accertato con sentenza irrevocabile di condanna; è la forma più "grezza" ed immediata e comporta un aumento della pena inflitta per il secondo delitto.
  • Aggravata: altresì detta specifica, è quella forma di recidiva che si applica quando i due delitti non colposi non sono collegati tra loro, ma sono dello stesso tipo e quindi il recidivo ricade sostanzialmente due volte (o più) nello stesso errore, finendo per subire un aggravio di pena maggiore della recidiva semplice.
  • Reiterata: forma più grave della recidiva, si applica solamente quando il nuovo delitto non colposo viene commesso da chi è già recidivo e l'aumento di pena conseguente è diverso a seconda della recidiva già dichiarata (ovvero a seconda che il reo sia un recidivo semplice o aggravato).
Il discorso non è però finito qui, perché è necessario specificare ancora che la recidiva non è mai automatica: essa infatti va notata, richiesta dal Pubblico Ministero, valutata e dichiarata in sentenza da un giudice: l'organo giudicante ha infatti un ampio margine discrezionale sull'applicazione della recidiva, cosa da non sottovalutare per via dei suoi effetti non solo diretti, bensì anche per tutti i riflessi inerenti al regime carcerario, all'esecuzione della pena e all'accesso ai benefici di legge e alle misure premiali. Avere la qualifica di recidivo per il reo siginifica avere una pena sostanzialmente più grave e quindi differenziata e diversamente modulata rispetto a chi delinque per la prima volta, ma non solo: il recidivo infatti ha molte più preclusioni, in quanto ha diversi limiti sulla fruibilità di permessi premio, benefici carcerari, misure alternative, persino al patteggiamento.
Essere recidivi in diritto non è mai una buona cosa, perché l'ordinamento vede con sempre maggior sfavore coloro che delinquono più volte. Come si suol dire, errare è umano, ma perseverare è diabolico.

venerdì 14 aprile 2017

Chiedere la riparazione si può... ma non sempre il danno è ingiusto

Quante volte si sente dire nell'ambito di un procedimento giudiziario l'espressione "sono innocente!" spesso con ben poca convinzione, quando non con vera e propria arroganza e oltre ogni ragionevole dubbio? Di casi del genere sono piene le carceri prima ancora delle fiction, ma per quanto raramente, possono effettivamente capitare dei veri e propri errori giudiziari, che portano in prigione ingiustamente qualcuno che effettivamente nulla ha a che spartire coni reati di cui è accusato.
Uno dei casi più famosi ed emblematici in questo senso è quello di Enzo Tortora, finito coinvolto in un brutto giro al quale non si era mai nemmeno rivolto a causa di un errore di valutazione delle prove e del fenomeno allora anche più diffuso ed incontrollato del "pentitismo", ossia del tentativo di scardinare le associazioni di criminalità organizzata concedendo sconti di pena ed agevolazioni in cambio di rivelazioni che venivano prese subito per buone ed autentiche, senza la minima attività di controllo... con effetti a volte devastanti e che non tutti avevano la forza ed i mezzi di contrastare.
Enzo Tortora più di tanti altri ha subito un'ingiustizia di notevoli proporzioni e più di tanti altri sarebbe stato legittimato a chiedere un risarcimento per l'ingiusta detenzione subita, ma purtroppo non ha fatto in tempo: è stato infatti solo nel 1988, l'anno della morte del famoso conduttore di Portobello, che è stata introdotta nell'ordinamento italiano la Legge 117, la cosiddetta Legge Vassalli riformata nel 2015, che sancisce la responsabilità civile dei magistrati per i danni ingiusti.

Tale legge però funzionava in una maniera piuttosto strana, macchinosa e spesso e volentieri, dopo lungaggini burocratiche degne di nota, finivano per elargire un risarcimento più simbolico che effettivo... e non solo perché quantificare anni di vita perduti dietro le sbarre senza un vero motivo è un'operazione ai limiti dell'impossibile. Il meccanismo che stava originariamente alla base del risarcimento in questione poneva una serie di ostacoli da superare, primo fra tutti il vaglio di un "filtro di ammissibilità", ossia di un giudizio preliminare operato dalla Corte d'Appello competente per valutare se l'azione in questione era ammissibile con un controllo di presupposti, termini e valutazione della fondatezza della domanda; filtro che stroncava molte cause sul nascere e che è stato abrogato solamente con la riforma del 2015.
L'aspetto più rilevante della legge Vassalli, anche a seguito della riforma, è che la responsabilità civile dei magistrati è solamente di tipo indiretto e non è quindi possibile agire direttamente nei confronti dei singoli magistrati e men che meno è possibile farlo senza aver prima tentato di ottenere un risarcimento per tutte le altre strade ordinarie esperendo tutti i rimedi normalmente previsti dall'ordinamento per un dato procedimento. Inoltre, prima della riforma del 2015, non era nemmeno possibile chiedere un risarcimento se non per i casi di ingiusta privazione della libertà personale.
Tale clausola è stata abrogata e ad oggi è possibile agire in sé e per sé contro i danni ingiusti arrecati dall'attività della magistratura, indipendentemente dalla natura patrimoniale o non patrimoniale dei danni suddetti.
Ciò che non è stato variato nemmeno dalla recente riforma è lo svolgimento dell'azione: è infatti possibile esperire l'azione di responsabilità solo nei confronti dello Stato e nella persona del Presidente del Consiglio dei Ministri (con il paradosso documentato di un'azione di Silvio Berlusconi contro il Presidente del Consiglio Sivlio Berlusconi), dinnanzi alla tribunale del capoluogo del distretto di Corte d'Appello competente per territorio dove il fatto ingiusto dei magistrati si è verificato ed entro tre anni dal compimento del fatto o dalla scadenza del termine entro cui il magistrato avrebbe dovuto provvedere.
In caso di successo e di effetivo risarcimento, lo Stato potrà esercitare un'azione di rivalsa nei confronti dei magistrati responsabili in una misura non immediata, bensì a livello di decurtazione dello stipendio pari al massimo ad un'annualità di stipendio (al netto delle ritenute fiscali).

Quello che la riforma del 2015 ha invece variato riguarda la natura del danno ingiusto: è stato infatti chiarito che il danno ingiusto per cui è possibile agire per responsabilità civile dei magistrati riguarda ipotesi specifiche:
  • la violazione manifesta delle norme dell'Unione Europea;
  • l'affermazione in sentenza di un fatto manifestamente ed inequivocabilmente escluso da quanto dimostrato dagli atti del procedimento o, viceversa, la negazione di un fatto incontrovertibilmente dimostrato come verificatosi sempre in base a quanto dimostrato nel processo;
  • l'emissione di un provvedimento cautelare immotivato o fuori dai casi previsti dalla legge;
  • l'interpretazione di norme e la valutazione di fatti o prove in maniera erronea se commessi con dolo o colpa grave.
Il motivo dell'impianto legislativo volto alla responsabilità indiretta risiede nella tutela dell'indipendenza della magistratura e della sua capacità di svolgere le proprie funzioni in maniera autonoma e senza il timore legato a ritorsioni ulteriori rispetto a quelle che già molti magistrati rischiano quotidianamente e al contempo garantire un rimedio, oggi più efficace di quello originale, in caso di errori derivati da grave incapacità o, peggio ancora, da volontarie violazioni della legge.
Violazioni che, per quanto possano essere ritenute a vario titolo ingiuste, non possono essere lasciate alla qualificazione di un soggetto privato, ma devono essere valutate comunque giuridicamente ed avere connotati di abnormità tali da essere oggettivamente contrarie ad ogni norma e diritto. Casi dubitativi, in cui l'assoluzione dipende da mancanza o insufficienza di prove o da motivi tecnici-formali più che da una dimostrazione di innocenza "con formula piena", sono certamente un esercizio non felice della giustizia, ma in genere non si possono definire così gravi da essere anche ingiusti.

lunedì 10 aprile 2017

Legittima difesa... all'americana o all'italiana?

In tema di legittima difesa, la legge non spende molte parole e ad essa è dedicata una sola effettiva norma, ovvero l'art. 52 del Codice Penale. Articolo che però trova connessioni con altre norme generali dell'ordinamento penale e che si intrecciano per formare un quadro sul quale però vi è ancora oggi molta confusione e che alla luce dei recenti dibattiti occorre nuovamente prendere in esame.
Richiamo quindi sul tema un approfondimento ancora in forma di video, che sintetizza il quadro generale della materia e delle sue interconnessioni.


Quindi occorrerebbe chiedersi quale condotta è prevista come ideale e quindi come comportarsi concretamente in caso di aggressione e di violazione dei propri diritti. La condotta del cosiddetto agente ideale è quella di intimare, anche con l'ausilio di vari strumenti, bleffare e indurre chi aggredisce alla fuga, possibilmente senza toccare e soprattutto senza inseguire nessuno, lasciando che siano le forze dell'ordine a reprimere in concreto la minaccia, in quanto fornite di armi e dei pubblici poteri per intervenire ed arrestare chi viola la legge.
Purtroppo molti episodi di eccesso colposo nascono in parte dalla paura e dalla concitazine di quei momenti, ma anche dalla filosofia del "prima spara poi fai le domande"... una filosofia che ha sempre portato molti più danni che benefici e che, come i troppi casi di cronaca anche recente dimostrano, non rientrano nei canoni della legittima difesa o fanno sospettare che il caso sia anche più grave.

I più recenti casi e le più recenti richieste di avviare l'ennesima riforma sembrano spingere la materia ancora più che nel 2006 verso una sorta di versione americana della legittima difesa e non sono rari i casi di vere e proprie bufale quando non di vere e proprie bestialità giuridiche che vorrebbero l'estinzione del "reato di legittima difesa".
Certo è vero che i casi di indagine per eccesso colposo di difesa non dovrebbero essere così portati alla ribalta mediatica e soprattutto i tempi di tali procedimenti dovrebbero essere più snelli, portando anche ad archiviazioni più facili e quiete nel momento in cui appare del tutto evidente la dinamica di legittimità della difesa... ma da qui ad invocare che non ci voglia mai il dovuto approfondimento della vicenda quasi come succede negli Stati Uniti ce ne vuole.
E per capire il motivo per cui una riforma del genere sarebbe sbagliata basta pensare allo scenario che si aprirebbe nel caso di una legittima difesa libera e sempre e comunque presunta per legge senza possibilità di approfondire: sarebbe semplicemente possibile invitare qualcuno a casa propria, ucciderlo a sangue freddo e sostenre che si sia trattato di legittima difesa (come già in fondo potrebbe avvenire dall'introduzione della confusa riforma del 2006)... e in tal caso, a parte le scene più raffazzonate ed inverosimili, chi potrebbe contestare una legittima difesa presunta per legge? Quanto dovrebbero essere complesse le indagini e quanti ostacoli burocratici e non solo dovrebbero essere valicati per poter arrivare all'accertamento della verità?
Se una riforma della legittima difesa deve esserci, sta nella semplificazione delle indagini e magari nella compressione della possibilità di chi ha dato origine alle circostanze di legittima difesa di chiedere immeritati risarcimenti e di rivalersi così oltre ogni logica e ogni dignità su chi si è difeso in caso di procedimento per eccesso colposo di legittima difesa. Di certo una riforma seria non si può concretizzare nell'americanizzazione della scriminante e nella sostanziale libertà di sparare e fare del male a qualcuno più del dovuto e di quanto si stia subendo.

sabato 8 aprile 2017

Sposarsi si può, ma con i modi ed i tempi giusti

Le società multiculturali sono in sé e per sé un fatto positivo, per la ricchezza appunto culturale che possiede, per le diverse tradizioni portate dai popoli che si mescolano e che danno vita a qualcosa di nuovo e che unisce in sé caratteri anche molto differenti, ma non per questo divergenti.
Questo clima ha però un "prezzo" implicito da pagare, che è anche il rovescio della medaglia della multiculturalità: non tutti i tratti di una cultura di proveninenza sono importabili e non tutti sono accettabili in quanto incompatibili con gli altri tratti della società che ospita e accoglie le diverse culture e quindi alcuni di questi tratti devono essere abbandonati nelle terre e nelle tradizioni d'origine, altrimenti il prezzo da pagare è lo scontro con l'ordinamento del Paese che accoglie. Ovvero con l'ordinamento italiano.
Uno dei motivi di incompatibilità, quando non di contrasto, con diverse culture straniere è costituito dalla politica matrimoniale. Sono molte infatti le culture nel mondo che prevedono la possibilità per tradizioni ataviche di combinare matrimoni tra famiglie senza neanche prendere in considerazione la volontà delle suddette figlie o anche solo l'età delle stesse: la piaga delle "spose bambine" in certe aree è tristemente nota e non ancora purtroppo debellata, così come quella dei matrimoni combinati con ragazzine giovanissime. L'ultimo episodio in ordine cronologico, per fortuna sventato, riguarda una quindicenne di origini egiziane che da Torino avrebbe dovuto abbandonare la scuola e tutto ciò con cui è cresciuta per sposare un perfetto sconosciuto di dieci anni più grande di lei.

Tralasciando gli aberranti profili umani della vicenda suddetta e del fenomeno tanto primitivo quanto ancora tristemente attuale, occorre chiarire che i matrimoni con persone minorenni in Italia sono vietati: la legge prescrive infatti dei requisiti per il matrimonio, alcuni formali e legati al rito, altri molto più sostanziali e fra questi ultimi rientrano la maggiore età ed il libero consenso delle parti che vogliono contrarre matrimonio. Questo perché l'ordinamento presume e al tempo stesso richiede che le parti abbiano raggiunto la piena maturità e la consapevolezza dell'atto matrimoniale e dei suoi effetti sulla loro vita.
Nello specifico, l'art. 84 del Codice Civile statuisce molto chiaramente che i minorenni non possono contrarre matrimonio e una sola eccezione è prevista "per gravi motivi" nel caso di sedicenni già maturi sotto ogni profilo psico-fisico e comunque dietro esame e specifica autorizzazione del Tribunale dei Minori, quindi con un attento vaglio di ogni circostanza che porti all'emancipazione e al matrimonio dei minori stessi. Minori che comunque siano in un'età in cui possano avere una miglior comprensione della vita e possano anche accoglierla e donarla.
Salvo tale caso, ormai più raro che effettivo, sposare una persona che non abbia compiuto almeno 18 anni è quindi illegale in Italia e tale impedimento è sanzionato da una nullità radicale ed assoluta del matrimonio: in altri termini, uno sposalizio celebrato con una persona non maggiorenne o non consenziente (o peggio ancora entrambe le cose) nemmeno esiste agli occhi della legge e a tutti gli effetti civili.
E tantomeno potrebbe essere considerato legale o accettabile un matrimonio del genere celebrato all'estero: un matrimonio infatti può essere fatto valere a tutti gli effetti da coppie che provengano da altri Paesi, ma perché ciò avvenga non basta che si faccia pervenire l'atto di matrimonio dall'archivio dello stato civile di una nazione straniera, bensì occorre che questo matrimonio rispetti le norme ed i requisiti posti dall'ordinamento italiano... con la conseguenza che certi matrimoni potrebbero non essere riconosciuti in Italia e non varrebbero quindi niente, per via della manifesta incompatibilità con quanto previsto dall'ordinamento giuridico.

Inoltre vi è un aspetto poco considerato riguardo al fenomeno delle "spose bambine": nel caso in cui questi barbari matrimoni dovessero essere non solo celebrati, ma anche purtroppo consumati, i mariti sarebbero pure passibili di arresto non solo in quanto pedofili, ma anche in quanto criminali. La legge vieta infatti i rapporti sessuali con i minorenni all'art. 609 quater del Codice Penale e la fattispecie è considerata alla stessa stregua della violenza sessuale, a cui la norma citata esplicitamente rimanda, a prescindere dal fatto che ci sia o meno un qualsiasi genere di consenso. Questo senza considerare anche le varie possibili circostanze aggravanti di fatti del genere.
Prendere una sposa bambina significa quindi non essere affatto un marito ed essere altresì uno stupratore agli occhi dell'Italia, senza giustificazioni di sorta che possano derivare da un'altra tradizione o da un'altra cultura. Significa violare in un colpo solo ogni legge civile e penale e rovinare il significato di ciò che dovrebbe essere solo una bella cosa.

venerdì 7 aprile 2017

Dissentire forse è lecito, rispettare lo è sicuramente di più.

La storia degli scioperi, delle manifestazioni e delle proteste in Italia è piuttosto controversa e se è vero che non tutte le proteste sono finite male e sono filate lisce senza bisogno di essere attorniate da cordoni di sicurezza, è altrettanto vero che in tempi recenti si è resa sempre più spesso necessaria la presenza delle forze dell'ordine in tenuta anti-sommossa per evitare o al peggio contenere i danni. Danni che molto spesso si possono anche considerare tutto sommato come "collaterali", ma che nessuno bene o male finisce poi per risarcire, nemmeno quando le proteste suddette si trascinano delle code che poi finiscono in tribunale.

Questo triste filone ormai sta davvero passando il segno e vi sono casi in cui dalla ragione (presunta e comunque sempre da dimostrare) si passa al torto marcio e conclamato... e questi casi sono quelli in cui si viola apertamente la legge (e peggio ancora se ne va pure fieri).
In questi casi molti malfattori si approfittano di qualche aspetto concreto che rende difficile la persecuzione dei responsabili delle azioni violente e criminali, quali il sovraffollamento delle carceri o il fatto che sono in tanti e che comunque, pur essendo autori di reati, hanno diritti che concretamente vengono più tutelati che in altri Paesi, approfittandosene non poco.
Ma al di là degli aspetti di difficoltà pratica, che possono essere superati in maniera altrettanto pragmatica, certe situazioni si stanno facendo a dir poco esplosive e a continuare in questo modo, il rischio di un maggior incremento di disordini e di fatti sempre più inaccettabili e di conseguenze ancora più pericolose si fa sempre più concreto.
L'ultima notizia di un "danno collaterale" durante una protesta, in nome di un'ideologia che ormai si sta facendo sempre più indifendibile oltre che ridicola, è quella della distruzione di un muro millenario per riciclarne le pietre e costruire quindi delle barricate per ostacolare i movimenti della TAP, movimenti che peraltro sono stati anche già fermati in buona sostanza dalla sospensione dei lavori ad opera del TAR del Lazio, sospensione che peraltro non riguarda la procedura dei lavori, definitivamente approvati e di importanza strategica per l'intera nazione e per l'Europa tutta, bensì solo la fase preliminare dell'espianto degli ulivi, che per paradosso proprio gli stessi manifestanti stanno mettendo a rischio con il loro cieco ostruzionismo.
Tutto questo è inqualificabile a livello di civiltà, è inquantificabile a livello di responsabilità civile ed è inquadrabile come criminale a livello penale, perché i profili di responsabilità a livello giuridico sono piuttosto pesanti ed incontestabili e vanno dal danneggiamento pluriaggravato agli atti vandalici. Ulteriore aggravante di quest'ultimo danno è dato dal fatto che il bene distrutto non era un muretto qualsiasi, bensì era un manufatto millenario che tecnicamente si poteva definire come un'opera architettonica di interesse storico e quindi, molto verosimilmente, sotto il vincolo e la tutela della Sovrintendenza delle Belle Arti: ne deriva quindi che il danno non è nemmeno lontanamente configurabile come "di lieve entità" né sotto il profilo storico né sotto quello meramente economico... e quindi i responsabili possono anche sognarsi di vedere applicata la particolare tenuità dell'art. 131 bis c.p. Soprattutto ne consegue che potrebbe non bastare un'intera vita di lavoro, se mai lavoreranno, per ripagare il danno storico e culturale, prima ancora che economico ed erariale arrecato ancora una volta.

L'augurio e la speranza ora è che i componenti della protesta cosiddetta "no tap" capiscano non solo che l'intero loro movimento è a priori sbagliato per le ragioni addotte e per i modi in cui si è realizzata finora la protesta, ma che a questo punto contribuiscano attivamente ad isolare e a consegnare alle autorità competenti i responsabili di tale scempio.
Il rischio per loro stavolta è ancora più alto: qualora difatti non aiutassero le indagini che dovessero essere compiute al riguardo, ma anzi coprissero e aiutassero i responsabili, si potrebbe configurare a loro carico un'ipotesi di complicità nei reati non solamente morale, ma anche giuridica: si tratterebbe infatti di un'ipotesi di favoreggiamento personale, che sanziona e punisce le condotte di tutti coloro che aiutano dei criminali a sottrarsi alla cattura e alle loro responsabilità nei confronti della società e della giustizia... anche qualora gli stessi soggetti non siano penalmente imputabili.
Questo perché la parte giusta non è quella di chi crea danni e problemi sbandierando una causa ideologica tanto sbraitata quanto assurda ed ipocrita. La parte giusta è quella della società. La parte giusta è quella dell'Italia.

mercoledì 5 aprile 2017

Non tutti i motivi sono giusti, non tutte le proteste sono lecite

La notizia è poco nota e poco diffusa, così come poco diffusa ed approfondita è stata l'intera vicenda che ha portato al famoso referendum sulle trivelle, conclusosi, come tutti ricordano, con la vittoria del "partito dell'astensione"... e anche del sostanziale disinteresse per la materia.
Ciò che poco si sa, tuttavia, è che a scapito dell'esito del referendum e dell'intera vicenda, il fronte del "no triv" ha conseguito un risultato con la sua attività di protesta e di blocco: l'apertura di un arbitrato internazionale che rischia di costare a tutta l'Italia qualcosa come 160 milioni di Euro in caso di decisione favorevole alla compagnia Rockhopper. La suddetta compagnia che ha promosso l'arbitrato aveva infatti stipulato un accordo per lo sfruttamento di un giacimento petrolifero nell'Adriatico e non ha potuto poi operare per colpa dell'ostruzionismo del citato movimento, avallato dal Governo dell'epoca, e quindi non ha potuto nemmeno pagare all'Italia i diritti di sfruttamento del giacimento (ossia le cosiddette royalties), diritti che sarebbero stati molto utili anche per diminuire un po' il carico della pressione fiscale e poter pensare di avviare delle più sane riforme strutturali in diversi settori.
Quindi per una mera, effimera ed incerta convenienza elettoral-popolare (tutta peraltro da verificare, perché ad oggi le elezioni non si sono ancora tenute), è stata appoggiata la protesta e quindi una sparuta minoranza l'ha spuntata su un accordo internazionale. Le conseguenze di tale scelta e del comportamento della stessa minoranza si stanno manifestando solo adesso... e rischiano di essere molto più salate del previsto, ma non del logicamente prevedibile.
Qualora l'arbitrato dovesse decidere a sfavore dell'Italia, com'è logico presumere, la conseguenza più immediata potrà essere con ogni probabilità un aumento delle tasse per poter ripianare il buco che una simile condanna aprirebbe nei conti pubblici... aumento delle tasse che l'Italia, nelle condizioni in cui si trova, non si può permettere: servirebbe anzi una diminuzione delle tasse per poter risanare e far ripartire l'economia, ma per fronteggiare una simile evenienza internazionale sono ben poche le manovre alternative possibili. E fra queste è esclusa qualsiasi interazione con l'Unione Europea: una dilazione dei conti e margini di manovra ulteriori sono giusti e sacrosanti da richiedere in casi eccezionali da affrontare, come il terremoto di Amatrice, ma per una condanna derivante da un arbitrato internazionale non si potrebbe chiedere nulla. Anzi, di fronte ad una simile richiesta, la reazione comico-umoristica degli altri membri dell'Europa non potrebbe che sorgere legittima e spontanea, lasciando l'Italia da sola ad affrontare una crisi economica ulteriore.
Crisi che però non è esattamente responsabilità dell'Italia a ben guardare, ma solo di uno sparuto e ristretto movimento ideologicamente orientato, che con ben poca scienza e meno coscienza ancora ha arrecato un danno ingiusto all'intera collettività italiana. Un danno che, in teoria, toccherebbe a loro risarcire a tutta l'Italia onorando in prima persona il debito... oppure subendo un'azione di regresso da parte dello Stato, vista la loro responsabilità per questo fatto ingiusto, che ben potrebbe e dovrebbe portare via tutto il patrimonio come indennizzo minimo e parziale per quanto potrebbe essere costretta a pagare l'Italia intera.
Per loro fortuna, incardinare un'azione civile ex art. 2043 c.c., per quanto assolutamente meritata, sarebbe tecnicamente molto difficile da incardinare per varie ragioni, a cominciare dalla competenza territoriale e funzionale dei giudici. Ma forse una citazione per danno erariale potrebbe non essere così improponibile...

Il movimento "no-tap" balzato recentemente agli onori delle cronache rischia non solo di far ripetere la storia appena esposta, ma anche di portare a conseguenze ancora peggiori in questo senso, oltre a tenere una condotta più illegale ancora sotto vari profili.
Assieme agli aspetti civili ed erariali delineati poco sopra, i vari esponenti di tale movimento dimostrano una miopia ed un'incoerenza che rischia di trascendere nella costante contraddittorietà o addirittura nella malafede, come buona parte dei movimenti ideologicamente orientati: gli stessi manifestanti che fondano la loro protesta sul motivo ecologistico di tutela degli ulivi hanno dimostrato di muoversi solo se c'è un accordo internazionale in ballo o una grande opera di portata internazionale da far saltare o ritardare, perché con tutti gli avvenimenti documentati di scempi ambientali che sono avvenuti nelle stesse terre (e di brutali violazioni ai protocolli europei di tutela dell'ambiente riguardo al batterio Xylella) non si è mai alzata una sola voce di protesta e i danni ambientali sono esponenzialmente maggiori, quasi incalcolabili rispetto ad una procedura di espianto e ricollocamento delle stesse piante presta e da effettuare a distanza di poco tempo per la loro salvaguardia durante i lavori.
Tempo che tuttavia gli stessi manifestanti stanno rubando alle piante e alle loro stessa possibilità di sopravvivenza. Tempo che gli ulivi probabilmente non hanno e che quindi paradossalmente rischiano di morire proprio per colpa di coloro che dicono di volerli salvare. Tempo che gli stessi manifestanti stanno perdendo e stanno facendo perdere ad un'opera che a quest'ora sarebbe già terminata o sarebbe ad un buon progresso senza la loro interferenza e la loro plateale ed inutile esibizione di forza di fronte a... a cosa? Allo straniero? Agli accordi presi in sede internazionale? A degli accordi che non creano grandi sconvolgimenti per il territorio e che vanno a vantaggio di tutta l'Italia e quindi anche loro?

Al di là degli aspetti ideologici, tanto ridicoli quanto aberranti se razionalmente considerati, le proteste toccano anche profili giuridici che si stanno facendo sempre più vergognosi ed attuali rispetto alla citata responsabilità civile per fatto ingiusto.
In primo luogo, sono stati riportati ricorsi per chiedere giudizialmente l'arresto dei lavori per eseguire nuove verifiche tecniche in luogo di quelle già effettuate. Un ricorso che sarebbe stato legittimo se le verifiche tecniche non fossero già state effettuate, ma che in questa sede appare quindi piuttosto discutibile, pregiudizievole e soprattutto temerario, sfrontatamente orientato a far perdere tempo con una richiesta manifestamente infondata e che, in sede civile, sarebbe sanzionata per questa stessa ragione per quella che si definisce tecnicamente come "lite temeraria".
In secondo luogo, tutte le proteste sono penalmente rilevanti e sanzionabili: non si rendono forse conto i no-tap (così come i no-tav, i black block, molti centri sociali e gli antagonisti in genere) che il loro ostruzionismo costituisce almeno occupazione di suolo pubblico e violenza privata, reati per cui basta una querela presentata alla Procura della Repubblica per farli tutti arrestare e mandare a processo. E probabilmente non stanno commettendo solo quei reati, se si è arrivati a far esplodere delle bombe carta.
Sono quindi molto fortunati tutti loro che nessuno li abbia ancora querelati per le varie forme di aggressione che stanno perpetuando o che non sia stato ancora autorizzato lo sgombero forzato o l'impiego dell'esercito, che non si limiterebbe ad un contenimento come la Polizia di Stato. O ancora che non sia stato emanato un provvedimento con cui tutti i manifestanti, che stanno illegalmente ed irragionevolmente ostacolando un'opera di pubblica utilità, possano essere identificati e registrati per poter essere poi ritenuti responsabili di tutti i danni causati e di quelli che potrebbero emergere in futuro come conseguenza della loro condotta scriteriata, illecita e probabilmente eterodiretta.
Condotta che probabilmente si potrebbe evitare se solo la gente studiasse e ognuno si informasse e si fermasse a pensare da solo con la propria testa, invece di comportarsi da branco irrazionale con un limitato intelletto collettivo diretto da pochi capipopolo che urlano e sbraitano agitando istinti atavici per niente.

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