Il fatto salito di recente agli onori delle cronache è abbastanza notorio: un bidello ha palpeggiato una ragazza, per giunta minorenne, mentre si stava recando in classe in compagnia di un'amica. A seguito di questo episodio si è svolto un processo penale che si è concluso per ora con una sentenza di primo grado di assoluzione perché il fatto non costituisce reato.
La presunzione d'innocenza fino a sentenza definitiva di condanna obbliga a ritenere quindi il bidello non meritevole di sanzioni penali fino a quando la Corte d'Appello ed eventualmente la Corte di Cassazione non si pronunceranno nel merito della vicenda, mentre nel frattempo l'ironia della rete e quella dei social si stanno già scatenando più repentine dei tempi della giustizia italiana. Ma al di là dei facili discorsi e delle rappresentazioni più o meno sardoniche sui tempismi delle reazioni e delle azioni vendicative da applicare in altri casi analoghi, è la motivazione espressa dalla sentenza in questione a destare più di qualche perplessità.
Per maggiore chiarezza, occorre premettere che in ambito penalistico l'esame di ogni reato deve sempre prendere in considerazione e accertare la sussistenza di due componenti fondamentali:
- l'elemento oggettivo, ossia la condotta che viene concretamente attuata o la serie di eventi e concause pratiche che hanno portato al verificarsi di un evento;
- l'elemento soggettivo, ovvero la consapevolezza del proprio comportamento e la volontà di arrivare ad un determinato esito con le proprie azioni.
Senza soffermarsi troppo sulle teorie relative all'elemento soggettivo e ai suoi gradi, occorre chiarire come nella maggior parte delle condotte penalmente rilevanti devono sussistere entrambi gli elementi, ma ciò non è sempre necessario, perché ci sono reati che vengono puniti anche a prescindere dalla volontà di compiere una determinata azione (basti ad esempio pensare al reato di omicidio colposo).
Tornando al caso in esame, la sentenza di primo grado ha assolto l'assistente scolastico non per mancanza dell'elemento oggettivo, che anzi viene riconosciuto sussistente dalla sentenza stessa, ma per la mancanza dell'elemento soggetivo, in quanto "le modalità dell’azione lasciano ampi margini di dubbio sulla
volontarietà della violazione della libertà sessuale della ragazza", facendo rientrare il tutto nell'alveo di uno scherzo di cattivo gusto... dimenticandosi però sia che si è trattato di una condotta a sfondo sessuale sia soprattutto che fosse rivolta ad una ragazza di 17 anni, fatto che di per sé costituisce un'aggravante specifica per questo tipo di reato.
Questo inquadramento dell'elemento soggettivo risulta quantomeno dubbio: qualsiasi studente di giurisprudenza fin dal primo anno andrà incontro ad almeno una lezione nella quale verrà esplicitato che gli atti compiuti ioci causa, ossia per scherzo, sono di per sé nulli e non produttivi di effetti giuridici perché manca appunto la volontà di compiere sul serio un atto che abbia determinate conseguenze... peccato solo che questa soluzione valga per la teoria e per gli atti di natura civilistica e di certo non si possa applicare ad una fattispecie penale. Ed inoltre uno scherzo solitamente si compie tra persone che si conoscono e fra le quali c'è un grado di confidenza sufficiente ad ammettere determinati comportamenti che siano anche interpretati ed accettati come tali. Il fatto stesso che sia stata presentata una denuncia e che si sia arrivati ad un processo invalida di per sé questa definizione di "scherzo".
Inoltre la tesi dello scherzo scricchiola anche di fronte alla disposizione dell'art. 609 bis del Codice Penale: il reato descritto dalla lettera della legge punisce infatti chiunque costringa qualcuno a subire atti di natura sessuale contro la sua volontà con "violenza, minaccia o abuso di autorità" e proprio quest'ultima asserzione è rilevante per il caso in questione, in quanto una studentessa nell'edificio scolastico è sotto la resposabilità e al tempo stesso deve rispettare l'autorità dei vari membri del corpo scolastico, siano esso docenti o collaboratori di altra natura comuque riconosciuti dall'ordinamento e dalla scuola. Lo "scherzo" appare quindi più probabilmente come una scusa o un tentativo di minimizzare l'accaduto da parte di chi si trova in una posizione comunque di superiorità lato senso gerarchica rispetto alla persona abusata. Poco o nulla importa quindi il fatto che il palpeggiamento in questione non abbia avuto, per fortuna, connotazioni più violente di intrusione nella sfera intima della ragazza: l'atto non si sarebbe dovuto verificare e non si può far passare per leggerezza un atto che ha ben poco dello scherzoso e soprattutto non è stato consensuale.
La sentenza poi si mostra contestabile nell'esame dell'elemento soggettivo anche sotto un altro profilo, stavolta di natura giurisprudenziale: la Corte di Cassazione, con la sentenza 21273/2018 ha infatti avuto modo di esaminare un altro reato sempre riconducibile allo stesso art. 609 bis richiamato prima e ha stabilito che ad essere discriminante, necessario e sufficiente ad integrare l'elemento soggettivo del reato è la consapevolezza della natura sessuale dell'atto che si intende comipiere e che per essere lecito, un atto sessuale deve essere consensuale per entrambe le parti. Se si considera che la citata sentenza della Cassazione ha portato alla condanna per una "pacca sul sedere", che ha manifestamente una durata ben inferiore ad una palpata di una "meno di una decina di secondi", si potrà facilmente intuire come la sentenza del Tribunale di Roma sia completamente difforme dall'orientamento giurisprudenziale appena citato e anche abbastanza difficile da comprendere anche da un punto di vista di applicazione del diritto.
La vicenda ora verrà probabilmente portata avanti presso la competente Corte d'Appello e si spera la sentenza in esame verrà riformata, ma fino ad allora le situazioni si potranno solo commentare: altri rimedi andranno presi solo a tempo debito, senza stare a misurare il tempo minimo prima un atto che diventi reati.