giovedì 13 luglio 2023

La "palpata di 10 secondi" e la sentenza penale

Il fatto salito di recente agli onori delle cronache è abbastanza notorio: un bidello ha palpeggiato una ragazza, per giunta minorenne, mentre si stava recando in classe in compagnia di un'amica. A seguito di questo episodio si è svolto un processo penale che si è concluso per ora con una sentenza di primo grado di assoluzione perché il fatto non costituisce reato.

La presunzione d'innocenza fino a sentenza definitiva di condanna obbliga a ritenere quindi il bidello non meritevole di sanzioni penali fino a quando la Corte d'Appello ed eventualmente la Corte di Cassazione non si pronunceranno nel merito della vicenda, mentre nel frattempo l'ironia della rete e quella dei social si stanno già scatenando più repentine dei tempi della giustizia italiana. Ma al di là dei facili discorsi e delle rappresentazioni più o meno sardoniche sui tempismi delle reazioni e delle azioni vendicative da applicare in altri casi analoghi, è la motivazione espressa dalla sentenza in questione a destare più di qualche perplessità.

Per maggiore chiarezza, occorre premettere che in ambito penalistico l'esame di ogni reato deve sempre prendere in considerazione e accertare la sussistenza di due componenti fondamentali:
- l'elemento oggettivo, ossia la condotta che viene concretamente attuata o la serie di eventi e concause pratiche che hanno portato al verificarsi di un evento;
- l'elemento soggettivo, ovvero la consapevolezza del proprio comportamento e la volontà di arrivare ad un determinato esito con le proprie azioni.
Senza soffermarsi troppo sulle teorie relative all'elemento soggettivo e ai suoi gradi, occorre chiarire come nella maggior parte delle condotte penalmente rilevanti devono sussistere entrambi gli elementi, ma ciò non è sempre necessario, perché ci sono reati che vengono puniti anche a prescindere dalla volontà di compiere una determinata azione (basti ad esempio pensare al reato di omicidio colposo).

Tornando al caso in esame, la sentenza di primo grado ha assolto l'assistente scolastico non per mancanza dell'elemento oggettivo, che anzi viene riconosciuto sussistente dalla sentenza stessa, ma per la mancanza dell'elemento soggetivo, in quanto "le modalità dell’azione lasciano ampi margini di dubbio sulla volontarietà della violazione della libertà sessuale della ragazza", facendo rientrare il tutto nell'alveo di uno scherzo di cattivo gusto... dimenticandosi però sia che si è trattato di una condotta a sfondo sessuale sia soprattutto che fosse rivolta ad una ragazza di 17 anni, fatto che di per sé costituisce un'aggravante specifica per questo tipo di reato.
Questo inquadramento dell'elemento soggettivo risulta quantomeno dubbio: qualsiasi studente di giurisprudenza fin dal primo anno andrà incontro ad almeno una lezione nella quale verrà esplicitato che gli atti compiuti ioci causa, ossia per scherzo, sono di per sé nulli e non produttivi di effetti giuridici perché manca appunto la volontà di compiere sul serio un atto che abbia determinate conseguenze... peccato solo che questa soluzione valga per la teoria e per gli atti di natura civilistica e di certo non si possa applicare ad una fattispecie penale. Ed inoltre uno scherzo solitamente si compie tra persone che si conoscono e fra le quali c'è un grado di confidenza sufficiente ad ammettere determinati comportamenti che siano anche interpretati ed accettati come tali. Il fatto stesso che sia stata presentata una denuncia e che si sia arrivati ad un processo invalida di per sé questa definizione di "scherzo".

Inoltre la tesi dello scherzo scricchiola anche di fronte alla disposizione dell'art. 609 bis del Codice Penale: il reato descritto dalla lettera della legge punisce infatti chiunque costringa qualcuno a subire atti di natura sessuale contro la sua volontà con "violenza, minaccia o abuso di autorità" e proprio quest'ultima asserzione è rilevante per il caso in questione, in quanto una studentessa nell'edificio scolastico è sotto la resposabilità e al tempo stesso deve rispettare l'autorità dei vari membri del corpo scolastico, siano esso docenti o collaboratori di altra natura comuque riconosciuti dall'ordinamento e dalla scuola. Lo "scherzo" appare quindi più probabilmente come una scusa o un tentativo di minimizzare l'accaduto da parte di chi si trova in una posizione comunque di superiorità lato senso gerarchica rispetto alla persona abusata. Poco o nulla importa quindi il fatto che il palpeggiamento in questione non abbia avuto, per fortuna, connotazioni più violente di intrusione nella sfera intima della ragazza: l'atto non si sarebbe dovuto verificare e non si può far passare per leggerezza un atto che ha ben poco dello scherzoso e soprattutto non è stato consensuale.

La sentenza poi si mostra contestabile nell'esame dell'elemento soggettivo anche sotto un altro profilo, stavolta di natura giurisprudenziale: la Corte di Cassazione, con la sentenza 21273/2018 ha infatti avuto modo di esaminare un altro reato sempre riconducibile allo stesso art. 609 bis richiamato prima e ha stabilito che ad essere discriminante, necessario e sufficiente ad integrare l'elemento soggettivo del reato è la consapevolezza della natura sessuale dell'atto che si intende comipiere e che per essere lecito, un atto sessuale deve essere consensuale per entrambe le parti. Se si considera che la citata sentenza della Cassazione ha portato alla condanna per una "pacca sul sedere", che ha manifestamente una durata ben inferiore ad una palpata di una "meno di una decina di secondi", si potrà facilmente intuire come la sentenza del Tribunale di Roma sia completamente difforme dall'orientamento giurisprudenziale appena citato e anche abbastanza difficile da comprendere anche da un punto di vista di applicazione del diritto.

La vicenda ora verrà probabilmente portata avanti presso la competente Corte d'Appello e si spera la sentenza in esame verrà riformata, ma fino ad allora le situazioni si potranno solo commentare: altri rimedi andranno presi solo a tempo debito, senza stare a misurare il tempo minimo prima un atto che diventi reati.

domenica 15 maggio 2022

I quesiti del referendum sulla giustizia 2022

In maniera quasi silenziosa ed abbastanza sibillina, il giorno 12 giugno 2022 si terrà un referendum con cinque quesiti in tema di giustizia.
Come in quasi tutte le altre occasioni referendarie, anche quello del prossimo mese è una consultazione popolare in cui verrà chiesto al popolo italiano se sia favorevole o meno all'abrogazione di cinque disposizioni legislative, mediante altrettanti quesiti... e come da triste tradizione, non solo non si è fatta abbastanza discussione pubblica sul tema e sui singoli quesiti, ma in particolare la formulazione delle domande è decisamente specifica e richiede molta competenza tecnica perché se ne comprendano bene i riferimenti e la portata.
Pare quindi utile cercare di analizzare al meglio i vari quesiti per cercare di avere un quadro più chiaro possibile del significato di ognuno di essi, fermo restando che la loro formulazione integrale è già disponibile su diversi portali online e che pertanto non sarà riportata anche in questo approfondimento.
Pare doveroso premettere che i vari quesiti verranno trattati in ordine di facilità di trattazione e non di presentazione.


Quesito sull'incadidabilità

Il primo dei quesiti da esaminare è quello relativo al decreto legislativo 235 del 31 dicembre 2012 ed è in apparenza facile: si chiede agli italiani se si voglia abrogare un decreto che, scritto in questo modo, può suonare totalmente anonimo e pressoché indifferente, uno tra i tanti esistenti. Pure la specificazione del titolo ufficiale del decreto legislativo, ossia il fatto che si tratti di un Testo Unico, potrebbe non suggerire nulla all'osservatore casuale.
Tuttavia il decreto in questione non è così privo di importanza nella storia legislativa recente, perché di fatto si tratta di uno dei quattro decreti che hanno dato attuazione a quella che è meglio nota come Legge Severino e, nello specifico, quello su cui si concentra il quesito referendario è il decreto che prevede la decadenza e l'incandidabilità per sei anni di chiunque ricopra un incarico pubblico o una carica politica (persino quella di membro italiano del Parlamento Europeo) e venga condannato penalmente a più di due anni di reclusione per un reato non colposo. Ci sarebbe da chiedersi perché venga richiesta l'abrogazione di quella che sembra una norma di un certo peso e calibro, adottata dal Governo Monti per cercare di contrastare il fenomeno della corruzione nei pubblici uffici e non solo.

La ragione potrebbe essere di carattere generale e bisogna ricordare come sia già previsto dal Codice Penale che i giudici siano in grado di infliggere non solo una condanna pecuniaria o alla reclusione, ma anche delle ulteriori sanzioni accessorie per rendere più efficace la sanzione principale qualora il caso richieda maggiori attenzioni... e tra queste misure accessorie vi sono anche la sospensione o addirittura l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, che comportano di per sé la decadenza e l'impossibilità di assumere nuovamente qualsiasi carica pubblica. Il decreto in questione invece ha reso automatica questa sanzione accessoria, togliendo ogni facoltà ai giudici di studiare il caso specifico con una presunzione assoluta di gravità ed indegnità a ricoprire una carica pubblica per la condanna riportata, ma si tratta comunque di un testo di una certa importanza e produttiva di numerosi altri effetti rilevanti contro la corruzione e contro coloro che riportano condanne per reati non colposi, ossia contro coloro che comunque hanno voluto commettere un reato e hanno preparato la loro azione criminosa.
La Legge Severino è forse perfettibile, come molte leggi attualmente in vigore: sarebbe auspicabile che venga aggiornata ai cambiamenti intervenuti in dieci anni di pratiche e di casistiche giudiziarie o è più utile distruggere l'intero testo del decreto legislativo per dare un maggior potere discrezionale ai giudici? Il 12 giugno l'ardua sentenza popolare...


Quesito sulla custodia cautelare

Un tema da sempre piuttosto spinoso in tema giudiziario riguarda la cosiddetta “carcerazione preventiva” soprattutto quando si verificano delitti di particolare gravità, omicidi in primis.

Quella della custodia cautelare in carcere e quella appena più tenue dei cosiddetti “arresti domiciliari” sono misure cautelari che possono essere adottate, assieme ad altre misure più tenui, dal Giudice per le Indagini Preliminari (meglio noto come GIP) con provvedimenti che devono essere sempre motivati. A rigor di legge, tali provvedimenti sono delle misure da prendersi solo ove strettamente necessario per garantire il miglior svolgimento delle indagini e devono essere adottati per prevenire ed impedire che l'indagato possa porre in essere tre specifici pericoli per le indagini: fuga, inquinamento delle prove o reiterazione del medesimo reato.

Per dovere di cronaca, si sono registrati casi in cui i provvedimenti contenevano tutte e tre queste ragioni nelle motivazioni, ma si tratta altresì di casi limite che non servono a porre l'attenzione su quello che è il nucleo principale della richiesta referendaria: eliminare la reiterazione del reato dalle possibili cause per cui un GIP possa incarcerare qualcuno prima ancora dell'inizio del processo, a volte anticipando di fatto la pena.

La richiesta referendaria può essere encomiabile negli intenti, ma non se ne comprende bene l'utilità o la necessità: togliere ai Giudici per le Indagini Preliminari la possibilità di adottare una motivazione non porterebbe alcun reale cambiamento al quadro attuale, in quanto non intaccherebbe infatti la possibilità che si possa comunque abusare delle due ragioni rimanenti non toccate dal quesito in esame; allo stato attuale, evitare l'eccesso di carcerazione preventiva può passare solo per altre misure che non sono attualmente previste da alcuna legge e che devono essere oggetto di una riforma della giustizia più organica in tal senso.

Come per gli altri quesiti, la sentenza popolare arriverà il 12 giugno.


Quesito sulla candidatura al CSM

Un altro quesito è inerente un articolo specifico della legge 195 del 24 marzo 1958.

Questa è una legge di ordinamento giudiziario, che non ha un'influenza diretta sulla vita di tutti i giorni, ma ha una certa importanza invece sulla regolamentazione della vita del Consiglio Superiore della Magistratura, altrimenti noto come CSM, ossia l'organo di autogoverno della Magistratura Italiana.

Al momento attuale, il CSM è composto per un terzo dai cosiddetti “membri laici” (ossia personalità che non rivestono alcuna carica in magistratura) e per due terzi invece da magistrati in carica e la norma di cui si chiede l'abrogazione riguarda proprio questi ultimi, in quanto stabilisce e regola un requisito forse poco noto che però viene chiesto ad un magistrato per presentare la propria candidatura come membro del CSM: qualunque magistrato che voglia candidarsi deve infatti ottenere preventivamente tra le 25 e le 50 firme di approvazione della sua richiesta. Questa disposizione, nata forse per dare un freno alle candidature troppo numerose ed indistinguibili tra loro, ha però favorito nel corso del tempo la formazione di quelle che sono oggi le varie e tristemente note correnti all'interno del CSM, che hanno portato ad una progressiva ingessatura e politicizzazione dell'organo di autogoverno stesso e alla sentita necessità di una riforma dello stesso.

Con il quesito referendario si vuole quindi chiedere agli italiani se continuare a dare fiducia alle correnti interne alla magistratura e sperare che cambino indirizzo oppure se permettere a tutti i magistrati di concorrere su un piano di parità per entrare a far parte del Consiglio Superiore della Magistratura e dare il loro concreto apporto indipendentemente dall'adesione o meno ad una corrente e ad una visione più o meno politicizzata e in un certo senso corporativa.


Quesito sulla valutazione dei magistrati

Come accennato nell'esame del quesito precedente, il CSM è composto in una parte minoritaria di membri “non togati”, ossia di personalità quali avvocati o professori universitari di Giurisprudenza che per vari meriti o per previsione espressa della legge possono essere chiamati a svolgere un ruolo all'interno del Consiglio Superiore della Magistratura.

Uno dei compiti principali del CSM è la gestione e valutazione delle carriere dei singoli magistrati, ma la funzione di valutazione delle carriere per qualche ragione è sempre stata attribuita solo ai membri “togati” e questo aspetto ha spesso e volentieri generato possibilità di giudizi non equi all'interno dell'organo, dettate magari anche solo dall'appartenenza o meno ad una data corrente, o comunque ha favorito logiche corporative nello svolgimento di vari eventi e di varie valutazioni.

Il quesito referendario non cita niente di queste situazioni, ma propone solo delle sforbiciate ad alcune parole contenute in quella che alla stragrande maggioranza degli italiani non può che apparire come una generica e ancora una volta anonima legge del 2006. L'unico indizio dell'importanza di questa legge la si può desumere dal suo titolo, che reca reca una voce importante, ossia “nuova disciplina dei Consigli Giudiziari”. Si dovrebbe dare ampio spazio ad una digressione più vasta per dare un'idea più completa del significato di questo titolo, ma non è purtroppo questa la sede adatta: questi Consigli Giudiziari, in estrema sintesi, altro non sono che organi territoriali del CSM nei quali però i membri laici non hanno al momento alcun potere riguardo alla valutazione dell'operato dei magistrati e sorprende non poco che questo potere non sia stato ancora attribuito in parità e con la dovuta equità anche a questi membri non togati.
Può sembrare strano che bastino pochi tagli per grazia popolare a garantire questa parità, ma si sa che la legge a volte è fatta di cavilli piccolissimi, che però hanno conseguenze anche molto grandi...


Quesito sulla separazione delle carriere

Se poco sopra si è parlato di “qualche sforbiciata” ad una legge, il quesito in esame propone invece una serie di richieste di tagli e di abrogazioni che diventa sproporzionata e vertiginosa e la formulazione del quesito diventa una vera e propria selva oscura di riferimenti normativi, tanto che pare difficile riuscire a valutare concretamente l'impatto di questa serie di tagli, che vanno ad impattare sulle norme più antiche ancora in vigore in Italia che regolano l'ordinamento giudiziario e su tutte le sue successive modificazioni.

Lo scopo di questa enorme ricerca di parole e cavilli nella loro posizione e nella loro funzione all'interno del tessuto normativo hanno nominalmente uno scopo a lungo perseguito da varie parti politiche e da vari Governi e mai effettivamente realizzato con un'apposita riforma, che rimarrebbe comunque d'obbligo anche in caso di approvazione del referendum: la separazione delle carriere dei magistrati.

Com'è noto, sia i Giudici sia i Pubblici Ministeri fanno tutti parte della medesima Magistratura e sono comunque colleghi, condividono le stesse strutture e sono tutti regolati e sottoposti alla medesima autorità del Consiglio Superiore della Magistratura... e proprio in virtù di questo rapporto, allo stato attuale è possibile che un Magistrato possa svolgere funzione giudicante (ossia essere un giudice che emana le sentenze alle varie cause e controversie) e poi decidere di passare a svolgere funzione requirente (ossia l'attività di Procuratore della Repubblica o Pubblico Ministero) e viceversa. Vi sono dei limiti interni previsti dalle norme di ordinamento giudiziario, ma riguardano prevalentemente limitazioni a svolgere queste funzioni in ambito civile o penale, senza bloccare mai la possibilità di passare alternativamente ad una delle funzioni giudicante o requirente.

Il quesito referendario non può realizzare una riforma compiuta di questo aspetto non secondario dell'organizzazione della giustizia, ma ciò nonostante vuole proporre una mastodontica opera di tagli mirati che, se realizzati, potrebbero almeno impedire ai magistrati di cambiare funzione più volte nel corso della propria carriera e favorire così una miglior specializzazione e formazione del sapere giuridico. Una simile operazione, qualora venisse approvata dal referendum del 12 giugno, non sarebbe tuttavia la fine di un problema abbastanza storico e protratto a lungo nella storia d'Italia, ma porrebbe comunque una necessità ancora più urgente di riformare questo settore con una legge fatta ad hoc per dare maggior compiutezza alla volontà popolare. Inoltre è importante segnalare che l'approvazione del referendum non potrebbe comunque sostituire l'opera del Legislatore nel regolare la separazione delle carriere in tutti quegli aspetti funzionali ed infrastrutturali, oltre che per rimediare ad un vero e proprio terremoto che si produrrebbe con tutti questi tagli al testo dell'ordinamento giudiziario.


Come sempre, l'iniziativa Parliamo di Diritto vuole cercare di dare la maggior chiarezza possibile e per il presente contributo si è avvalsa della collaborazione dell'Avv. Stefania Campa.

mercoledì 20 aprile 2022

La reale portata dell'art. 11 della Costituzione

 

L'Italia è un Paese democratico in cui vige libertà di opinione, su qualsiasi tema e con quasi qualsiasi tono: inutile ricordare, forse, che certi modi di esprimersi non siano comunque ammessi dalla legge e soprattutto nel codice penale siano presenti dei limiti, come ad esempio per la diffamazione.

Vi è tuttavia una precisazione che appare opportuna: il fatto che qualcosa non sia vietato dalla legge non impone automaticamente la più totale libertà di parlare senza freni di ogni argomento possibile ed immaginabile e vi sono anzi temi e sfere che meriterebbero un'attenzione ed una moderazione di tempi e termini ed un'articolazione delle argomentazioni in cui sarebbe utile lasciare la parola invece di prenderla a sproposito sui social network.

Una di queste aree è sicuramente quella del diritto costituzionale: è importante che se ne parli e che la più ampia maggioranza della popolazione conosca almeno i dettami della Costituzione, che è la summa delle regole ed il pilastro fondamentale dell'ordinamento italiano, soprattutto affinché molti possano essere consapevoli di quelli che sono i diritti fondamentali garantiti dallo Stato e sappiano riconoscere chi strumentalizza e piega le regole ai propri fini o alle proprie ideologie.

Una delle regole più attualmente dibattute, ignorate e fraintese è, inspiegabilmente, quella dell'art. 11 della Costituzione: detta norma è infatti recentemente usata come riferimento massimo da quelle voci che vorrebbero una posizione al più neutralista dell'Italia nel recente scenario internazionale, mentre in altri casi analoghi le proteste non sono state tanto roboanti o confusionarie. Tuttavia tale riferimento è radicalmente sbagliato e il testo dell'articolo 11 non ha una portata limitata al mero non intervento nei conflitti altrui e nel non fare guerre: non solo la Storia più o meno recente smentisce questo assunto (basti pensare alla partecipazione di contingenti italiani a missioni internazionali nelle guerre del Kosovo, dell'Iraq o dell'Afghanistan), ma è anche e soprattutto il testo integrale della norma a negare queste illazioni infondate.

Per comprendere il motivo per cui tale "opinione" non si può ritenere tale, occorre andare ad esaminare l'articolo 11 nel suo complesso. Innanzitutto occorre osservare che è esso collocato fra i principi fondamentali del testo Costituzionale e quindi in quel nucleo essenziale da cui poi si diramano molte delle altre regole che sorreggono l'ordinamento intero: non si tratta quindi di un principio secondario o banale nemmeno all'interno del testo costituzionale e proprio per questo è utile avere un'attenzione maggiore del dovuto non solo al testo, ma anche al contesto storico in cui esso è stato forgiato.

Bisogna ricordare infatti che la Costituzione è stata scritta in un periodo storico molto preciso, al termine di quella che oggi è ben nota come Seconda Guerra Mondiale e durante la ricostruzione del Paese dopo un ventennio di dittatura. Sarebbe ingiusto tuttavia non ricordare come non fosse solo l'Italia in una fase delicata di ricostruzione, ma era praticamente il mondo intero che si stava riassestando e stava trovando nuovi equilibri e uno di questi tentativi era la nascita dell'ONU, che sostituiva la precedente inefficace Società delle Nazioni, che non era stata in grado di prevenire o impedire in alcun modo la follia nazista e lo scoppio del conflitto mondiale.

È in questo quadro che i principi fondamentali sono stati ideati e trascritti dall'Assemblea Costituente ed è proprio in memoria e contro la ripetizione non solo degli eventi della Seconda Guerra Mondiale, ma anche delle guerre coloniali avvenute durante il c.d. Ventennio, che è stata scritta la prima parte dell'articolo in questione.

La norma infatti recita testuali parole: 

L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.

La motivazione di questa formulazione si può rinvenire già nella relazione al progetto del testo costituzionale del 1947, quando viene spiegato senza mezzi termini come “rinnegando recisamente la sciagurata parentesi fascista l'Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli.
Come si può chiaramente capire leggendo integralmente la norma e la relazione al testo che la accompagna, l'Assemblea Costituente ha voluto dare un taglio netto con le passate politiche aggressive ed espansionistiche, condannando espressamente ed apertamente la guerra di conquista che aveva caratterizzato il regime precedente alla neonata Repubblica Italiana; inoltre il dettato costituzionale delegittima radicalmente ogni possibilità che l'Italia attacchi un Paese straniero per risolvere con la forza militare una questione solo ed esclusivamente interna di tale altro Stato.
Quanto viene invece frainteso da una serie di soggetti che si definiscono pacifisti, senza davvero esserlo, nasce da una lettura molto superficiale e che si arresta alle prime parole dell'art. 11, ossia che “l'Italia ripudia la guerra”: questa lettura è invero fuorviante, perché se così fosse, non dovrebbe nemmeno esistere in Italia un esercito vero e proprio, un Codice Militare o una forza armata e soprattutto implicherebbe l'assurdità totale che la Repubblica abbia rinunciato per principio fondativo anche a difendersi in caso di aggressione da parte di altre Nazioni. Per fortuna questa è solo una lettura drammaticamente storpiata e frutto di una visione distorta della realtà e del mondo.
Ciò che il dettato costituzionale di conseguenza ammette è invece la guerra difensiva, ossia la possibilità di difendersi da attacchi ingiustificati o pretestuosi lanciati da altri Paesi e non è da escludersi nemmeno la possibilità di intervenire in difesa di altri Paesi che abbiano subito un simile attacco, soprattutto in virtù di trattati o patti internazionali o in accordo ad alleanze sovranazionali di cui l'Italia sia parte integrante.

Tale assunto è dato dalla seconda parte dell'art. 11 della Costituzione, di cui giova riportare ancora una volta il testo integrale:

[l'Italia] consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Ancora una volta occorre tornare ad esaminare il contesto storico per cercare di comprendere la ragion d'essere e la portata del dettato normativo: all'epoca in cui il testo fondamentale della Repubblica è stato scritto, l'ONU era stata fondata da pochissimi anni e stavano nascendo anche altre organizzazioni ed alleanze a carattere politico, economico e militare e rifiutare l'opportunità di avere aiuti in tema di commercio e difesa internazionali e soprattutto di dimostrare a tutti che l'Italia aveva cambiato volto rispetto al fascismo per incarnare un mero pacifismo passivo sarebbe stato oltremodo insensato. È stato invece grazie all'art. 11 che l'Italia ha potuto entrare a far parte di organizzazioni tutt'oggi vigenti, come l'ONU, la NATO o quella che oggi è l'Unione Europea.

Quanto alla portata pratica ed effettiva, la norma non fa altro che statuire quello che è poi una pratica delle relazioni internazionali quando si viene ad esaminare l'adesione ed il rapporto tra membri di una qualsiasi organizzazione o ente di natura non privatistica tra Nazioni diversi. Per citare ancora la relazione all'art. 11 del 1947, “Stato indipendente e libero, l'Italia non consente, in linea di principio, altre limitazioni alla sua sovranità, ma si dichiara pronta, in condizioni di reciprocità e di eguaglianza, a quelle necessarie per organizzare la solidarietà e la giusta pace fra i popoli.


Basta saper leggere il testo costituzionale nella sua interezza per comprendere con assoluta chiarezza e senza possibilità di dubbio come l'Italia in questo periodo storico abbia piena libertà di agire con la più ampia discrezionalità senza aggredire per prima nessun'altra Nazione e le decisioni in tema di politica internazionale non possono mai essere prese alla leggera, ma dire che siano a priori incostituzionali ed illegittimi gli aiuti e le forniture di messi militari ad un altro Paese aggredito o un futuro intervento armato in uno scenario caldo, soprattutto se deciso in seno ad un'organizzazione internazionale ed in presenza di ragioni e violazioni comprovate, è frutto, nella migliore delle ipotesi, di una grave e colpevole ignoranza in materia di legge e principi costituzionali.

venerdì 19 marzo 2021

Come rinunciare alla maternità?

Come è ben noto, nell'ordinamento italiano la famiglia ha un ruolo molto importante, tanto che vi sono diverse norme che cercano di offire la più ampia tutela ai suoi membri, prevedendo e a volte anche imponendo diritti e doveri della più ampia e diversa natura. Tra questi la potestà genitoriale riveste sicuramente un'importanza a dir poco centrale, tanto che la legge non consente di rinunciarvi o di perderla, se non per motivi di assoluta gravità... con un'unica grande eccezione, che riguarda la maternità. Pare doveroso premettere che non si parlerà del tema dell'aborto, in quanto non si può qualificare come una rinuncia a qualcosa che si viene a creare con la nascita di un figlio. Anzi, per molti versi la rinuncia alla maternità si configura esattamente agli antipodi di tale pratica ancor'oggi dibattuta.

La legge, nello specifico il DPR 396/2000, ha istituito e regolato uno strumento inedito, poco conosciuto e mai visto prima nell'ordinamento italiano: il parto anonimo in ospedale.
In base alla norma citata, è possibile per una donna che lo desideri partorire in ospedale e non riconoscere il proprio discendente, esprimendo quindi il diniego ad essere menzionata nell'atto di nascita di un "bambino vivo e vitale", qualsiasi ne siano le insindacabili ragioni. Di questo diritto ci si può avvalere indipendentemente dalla condizione economico-sociale e dallo stato civile della partoriente e questo ha altresì un ulteriore effetto potenziale: nel caso in cui la puerpera sia sposata ed eserciti questo diritto, sul figlio non riconosciuto dalla madre decade anche qualsiasi possibile presunzione di paternità che la legge altrimenti farebbe sussistere in capo al marito.
Si capisce quindi come questa facoltà messa a disposizione dalla legge e ancora poco usata possa consentire di preservare una vita ed i suoi diritti costituzionalmente garantiti, contrariamente all'aborto, e al tempo stesso alla madre di disinteressarsi completamente del destino del neonato qualsiasi sia la ragione alla base di tale scelta, per lasciarlo alle cure delle istituzioni e di altre famiglie interessate ad avere figli.

Il parto anonimo tuttavia non si limita ad apporre un codice specifico sugli atti da trasmettere agli ufficiali dello stato civile per registrare la nuova nascita senza il nome della madre, ma anche ha una serie di sviluppi e ramificazioni che non si possono dare per scontate e che saranno molto semplificate in questa sede: il bambino neonato ha infatti comunque diritto ad essere accudito ed allevato da una famiglia, anche se diversa da quella di sangue, e pertanto il presidio ospedaliero ha il dovere di avvertire il Tribunale dei Minori competente per territorio una volta decorso il termine perentorio di 15 giorni concessi alla madre per cambiare idea e riconoscere il proprio figlio: in tal modo l'autorità giudiziaria ha quindi modo e dovere di procedere quanto prima a porre il neonato abbandonato in stato di adottabilità, in modo che una famiglia idonea individuata dal Tribunale medesimo possa prendersene cura.

Le informazioni cliniche inerenti al parto invece non vengono semplicemente disperse o cancellate come si potrebbe pensare, bensì vengono archiviate dall'ospedale con tutte le cure per tenerle secretate: il codice della privacy prevede infatti che di tali atti possano esserne fatte copie solo a partire da cento anni dall'evento e che eventuali informazioni cliniche possano essere rivelate solo ove rilevanti e con ogni accortezza affinché il nome della madre non venga menzionato.
Questa cautela è opportuna per due ragioni. La prima di tutta evidenza è di carattere più squisitamente medico: qualsiasi informazione relativa a malattie o patologie congenite possono essere sempre rilevanti per formare la cartella clinica del neonato e in caso di necessità, tali informazioni sarebbero altrimenti molto difficili, se non impossibili da reperire, rendendo pertanto più difficoltoso o parimenti impossibile un adeguato trattamento terapeutico che si dovesse rendere necessario.
La seconda ragione della conservazione di tali dati è invece di natura giudiziaria: decorsi un considerevole numero di anni e superato anche il raggiungimento della maggiore età del figlio non riconosciuto, questi acquisisce la facoltà di chiedere all'autorità giudiziaria la possibilità di venire a conoscenza delle proprie vere origini ed è solo per tale tramite che l'autorità competente può ricavare le informazioni utili per ricercare e tentare di entrare in contatto con la madre. L'esito di tale contatto non è tuttavia né automatico né scontato, non solo perché le ricerche dell'autorità giudiziaria possono non avere successo, ma anche e soprattutto perché la legge consente ancora alla madre di perpetuare il proprio silenzio e di rifiutare quindi ogni possibilità di farsi riconoscere e di avere contatti con il figlio lasciato in ospedale tanti anni prima. E di fronte a tale diniego non c'è possibilità di appello. il diritto a conoscere le proprie origini si infrange secondo la legge contro il prevalente diritto alla riservatezza dell'origine stessa.

Da ultimo occorre segnalare qualcosa che dovrebbe essere ovvio, ma che purtroppo non si è rivelato tale: la facoltà del parto anonimo in ospedale non è consentita alle donne che abbiano fatto ricorso a procedimenti di procreazione medicalmente assistita. La ragione è presto detta: i trattamenti per la ricerca di un figlio non sono e non possono essere considerati un capriccio o un frutto di un desiderio transitorio e pertanto la legge richiede ed in questo caso pure impone coerenza a chi a tali trattamenti abbia fatto ricorso con successo per procreare una nuova vita che altrimenti non sarebbe stata concepita.

Come sarà ormai emerso con chiarezza, l'istituto del parto anonimo in ospedale non è stato concepito come antitesi all'aborto, ma copre altre esigenze di riservatezza e mira a contemperare diversi interessi di natura personale e sociale della madre con quelli più elementari di cura e di salute di cui un bambino non voluto, ma comunque nato ha in ogni caso diritto. Il fatto che possa configurarsi come un'alternativa all'aborto è un corollario sociale che potrebbe e forse dovrebbe essere preso in considerazione, sebbene la sua mira principale sia volta a contrastare quei fenomeni aberranti ed agghiaccianti dei bambini partoriti in segreto e gettati nell'immondizia come se fossero pattume, senza alcuna considerazione o rispetto per la vita di un neonato per supposte ragioni d'onore.
In simili casi, molto meglio rinunciare alla maternità e dare una possibilità alla vita piuttosto che farla nascere e sopprimerla nella spazzatura.

domenica 22 marzo 2020

Come difendersi dal Decreto sul Coronavirus?

In data 8 marzo 2020, è stato emanato in Gazzetta Ufficiale il famigerato Decreto Urgente per cercare di contenere il Coronavirus. L'efficacia di tale provvedimento si prospettava già dubbia in partenza a causa della conclamata e clamorosa fuga di notizie che già la sera precedente ha fatto circolare diverse bozze del medesimo decreto. Il fatto che tale informazione sia divenuta di dominio pubblico con un tempismo tanto inopportuno non solo ha una ancora possibile rilevanza penale per epidemia ai sensi dell'art. 656 del Codice Penale, ma è stato altresì deleterio per il mantenimento dell'ordine pubblico, unitamente a programmi, talk show e addirittura una conferenza stampa dello stesso Presidente del Consiglio Giuseppe Conte che preannunciava l'intento di attuare per decreto l'intento di cui si stava già da giorni discutendo: l'effetto, com'era altresì prevedibile e quasi scontato, ha infatti generato la ben nota fuga preventiva di moltissime persone dalla Stazione Centrale di Milano e in generale da quasi tutti gli snodi ferroviari verso tutto il resto d'Italia (e forse non solo) prima della promulgazione e dell'attuazione del Decreto. Questo caso, prima ancora che all'eventuale giudizio della legge per ipotesi di epidemia o di reati colposi contro la salute, è rimesso al giudizio della pubblica morale e potrebbe probabilmente rientrare come menzione disonorevole nei libri di storia e di sociologia.

Il Decreto in sé è un testo uscito in un momento improvvido e con un colpevole ritardo, è stato solo il primo di una serie di Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (meglio noti con l'abbreviazione D.P.C.M.) che hanno disposto una serie di sempre più numerose e stringenti limitazioni alle varie facoltà e libertà di attività e di movimento, sempre sulla scia di un'emergenza continua, ma senza mai arrivare a rafforzare tali misure restrittive con temporanee nuove ed incisive misure penali o con richiami espressi a norme più incisive, lasciando l'adattamento alle ordinanze degli enti locali: l'unica norma espressamente richiamata è l'art. 650 del Codice Penale. Si tratta di un reato che non è legalmente considerato di particolare gravità ed è inquadrato legalmente tra le cosiddette "contravvenzioni", ossia quelle figure di reato reputate minori e che hanno una qualificazione diversa e più leggera nelle sanzioni e nel modo di applicarle.
Tale omessa previsione si deve essere ampiamente diffusa, in quanto molta gente ha deciso di non rimanere ligia alle prescrizioni, tanto che è nota la notizia per cui il numero dei denunciati per l'inosservanza dei decreti è divenuto addirittura superiore al numero dei contagiati dal Covid-19.
Non è questa la sede per discutere dei profili morali dell'opportunità delle condotte tenute e della severità dei controlli adottati, che peraltro hanno pure permesso di scoprire con maggiore facilità altri reati, perché è rilevante invece osservare come da questa inosservanza sia legalmente possibile difendersi in maniera tutto sommato agevole.

Occorre tuttavia dare un'avvertenza preliminare: le indicazioni che seguiranno non devono in alcun modo essere ritenute una scusa per uscire impunemente, perché si tratta di un percorso che può essere utilizzato praticamente una volta sola, unicamente nel caso in cui si venga imputati esclusivamente del reato di cui all'art. 650 del Codice Penale e in ogni caso, per ragioni che verranno esposte a breve, è un percorso oneroso in termini di tempo e di denaro.
Come evidenziato poco sopra, la sanzione per l'inosservanza del decreto è una contravenzione, ossia una forma di reato complessivamente ritenuta minore dal Codice Penale; inoltre questa figura di reato è punita con una pena alternativamente detentiva o pecuniaria, in entrambi i casi di portata complessivamente lieve e facile da eseguire... ma tale lievità è di fatto ingannevole: per quanto si possa giustamente ritenere un sacrificio di poco conto dover pagare un'infrazione alle regole con qualche mese di arresti domiciliari o un'ammenda di poche centinaia di euro, c'è però un costo nascosto a lungo termine che è facile sottovalutare. Nel vocabolario comune, la multa e l'ammenda sono diventate parole di uso abbastanza comune e indicano genericamente la sanzione amministrativa che viene comminata per una violazione del codice stradale, ma tale indicazione è radicalmente sbagliata, perché multa e ammenda non sono sanzioni di quel genere, ma sono delle sanzioni penali e in questo caso il pagamento di una sanzione comminata per la violazione dell'art. 650 costituirebbe un precedente registrato nel proprio casellario giudiziale, ossia sulla cosiddetta fedina penale, con tutte le spiacevoli conseguenze future legate al fatto di essere dei pregiudicati.
Tuttavia il pagamento della sanzione non è l'unica opzione disponibile: per le contravvenzioni che confluiscono nei cosiddetti "affari semplici" esiste anche la possibilità di un giudizio accelerato ed alternativo, ossia in un decreto penale di condanna, tramite il quale si ordina al destinatario di pagare la somma prevista entro un certo lasso di tempo. Il pagamento in questo caso non va effettuato, perché altrimenti costituirebbe l'esecuzione di una condanna penale e a ciò conseguirebbe inevitabilmente l'annotazione del precedente penale. Occorre invece procedere a contestare tale decreto penale di condanna e chiedere con tale opposizione di poter accedere alle misure alternative, tra le quali la più conveniente è di sicuro l'oblazione.
Tale misura è accessibile quando la legge prevede la pena pecuniaria dell'ammenda o dell'arresto e la giurisprudenza ha esteso tale accessibilità anche ai casi in cui l'ammenda sia prevista in concomitanza con l'arresto. L'oblazione consiste nel pagamento di una somma pari alla metà della pena massima prevista dalla legge per il reato per non far avviare il processo penale e soprattutto per estinguere il reato e mantenere così la fedina penale immacolata e deve essere necessariamente richiesta prima dell'apertura del dibattimento penale.
Occorre prestare attenzione al ricorso a tale procedura, perché la concessione di tale misura deve essere appunto richiesta ed è ruolo e compito di un giudice valutarne le condizioni e l'ammissibilità caso per caso e quindi riuscire ad accedere a tale misura non è un privilegio automatico. Inoltre, stante l'obbligo di difesa tecnica vigente in Italia, non è possibile intraprendere questo percorso difensivo in autonomia, ma è necessario fare sempre e comunque ricorso ad un avvocato: pertanto salvarsi da un'imputazione ex art. 650 (e sempre ammesso che non vi siano pure altre imputazioni connesse che rendano inutile tutto quanto descritto in precedenza) è in sé abbastanza facile, ma non scontato e comunque oneroso, non solo per la somma di denaro da versare in oblazione, ma anche e soprattutto perché l'obbligo di rappresentanza tecnica non implica anche che tale obbligo sia adempiuto in maniera gratuira e quindi sarà da pagare di tasca propria anche e soprattutto l'onorario dell'avvocato che dovrà lavorare e rappresentare in tribunale chi sarà denunciato per violazione dei vari decreti in continua approvazione. E in tempi di Covid-19, con tutte le attività giurisdizionali soggette a rallentamenti e sovraccarichi ulteriori rispetto a quelli già elefantiaci dei tempi normali, attendere una notizia di oblazione e soddisfare l'onorario del legale rappresentante possono costituire il più oneroso dispendio di tempo e di soldi, che forse fanno meglio rivalutare l'ipotesi di non correre rischi inutili per il portafoglio, oltre che per la salute.

Aggiornamento del 24/3/2020: con nuovo decreto, il Governo ha deciso di sostituire la sanzione ex art. 650 del Codice Penale con una sanzione amministrativa variabile da 400 a 3.000 €.
Tale modifica è sostanziale in una duplice maniera: in primo luogo, risparmia allo Stato e ai soggetti in flagrante violazione un iter processuale penale lungo e non particolarmente opportuno in un momento come quello di emergenza sanitaria che stiamo vivendo e allo stesso tempo il governo si assicura una sanzione nei fatti più efficace perché più veloce da comminare ed incassare e che resta pendente quasi quanto una condanna penale.
In seconda analisi, tutti coloro che sono stati denunciati per la violaione del precedente decreto tornaranno liberi e il procedimento avviato nei loro confronti dovrebbe prevedibilmente decadere proprio a seguito del cambio di regime e in tali casi l'ordinamento penale prevede per regola generale che in caso di mutazione del quadro normativo si ha sempre l'applicaione del regime più favorevole al reo: in questo caso, la sostanziale depenalizzazione delle violazioni delle disposizioni del Decreto sopra descritto dovrebbe comportare per logica conseguenza l'archiviazione di tutte le migliaia di denunce di cui si è avuta notizia.
Questa modifica non deve però indurre a pensare che le maglie e le restrizioni siano allentate o che si introduca un regime più facile, perché una sanione è pur sempre presente e rischia di essere molto più onerosa del mero blando rimando ad una contravvenzione passibile di oblazione: per una sanzione amministrativa non ci sono infatti sconti possibili e i tempi non si dilatano all'infinito.

sabato 10 agosto 2019

Come cade un governo?

La durata e la stabilità di un Governo in Italia sono argomenti alquanto dibattuti e sono spesso mistificati e piegati ad un proprio tornaconto elettorale, ma la realtà giuridica ha intelaiature e segue ben percorsi diversi da quelli che vengono di volta in volta propugnati.
Come tutti sanno, o dovrebbero sapere, le elezioni in Italia non portano alla formazione diretta del Governo, bensì a quella del Parlamento in entrambe le sue Camere, secondo meccanismi previsti specificamente nella cosiddetta Legge Elettorale ed è poi in seno al Parlamento che il Governo si deve formare, di norma su mandato del Presidente della Repubblica affinché il capo del futuro Esecutivo riesca a trovare una maggioranza sia alla Camera dei Deputati sia al Senato della Repubblica: qualora si trovi una maggioranza tra le forze politiche rappresentative dell’Italia che supporti e dia fiducia al futuro Governo, il Presidente della Repubblica incarica quindi il futuro Presidente del Consiglio dei Ministri affinché formi una squadra di governo con la nomina dei Ministri più congeniali e alla fine il Governo presta giuramento di fronte al Presidente della Repubblica medesimo prima di poter iniziare a governare.
Ne deriva quindi che il Governo non sia avulso dal Parlamento e non può nascere e agire senza che esso sia approvato e sia esso stesso espressione della maggioranza espressa dall’elettorato, che quindi agisce in conformità e con l’approvazione della maggior parte delle forze politiche elette e presenti in Parlamento. Da ciò deriva anche una seconda conseguenza spesso ignorata: nessun Governo può durare all’infinito, ma il suo mandato ha una durata massima che coincide con quella del Parlamento da cui nasce e di cui è, o dovrebbe essere, voce e rappresentanza esecutiva.

Tuttavia un Governo non necessariamente cessa con la naturale scadenza del Parlamento, anzi nella storia repubblicana un Governo durato per l’intero mandato parlamentare appare praticamente come un miraggio, perché è sempre possibile che decada prima.
Tale evento avviene quando il Parlamento, per qualsiasi ragione, nega la sua fiducia ad un provvedimento del Governo quando questi pone la cosiddetta “questione di fiducia” su un provvedimento legislativo, ossia quando l’Esecutivo chiede al potere legislativo dello Stato di fidarsi su un punto particolarmente delicato. Sul modo in cui tale strumento è stato usato ed abusato nella storia della Repubblica si potrebbe aprire un’altra ampia digressione, ma in questa sede basti sapere che nel caso in cui la questione di fiducia viene respinta dal Parlamento, anche per un solo voto, il Governo deve considerarsi sfiduciato e delegittimato a continuare la sua opera, se non per l’ordinaria amministrazione fino alla nomina di un Governo successivo.
Analoga causa di decadenza è sempre derivata dal voto del Parlamento quando venga presentata una mozione di sfiducia al Governo da uno qualsiasi dei suoi membri e tale mozione venga approvata dalla maggioranza anche di una sola delle due Camere: in virtù del sistema di bicameralismo perfetto che vige in Italia, il Governo deve avere la fiducia della maggioranza di entrambe le Camere e quando l’approvazione di anche una sola delle due venga meno per via di tale mozione, il Governo è analogamente delegittimato.
In caso di particolare turbolenza politica, il Governo, su iniziativa del Presidente del Consiglio dei Ministri, può altresì richiedere ad entrambi i rami del Parlamento di esprimersi con una votazione di fiducia semplice, slegata da qualsiasi provvedimento legislativo e che funziona in maniera simile a quanto già visto poco sopra: nel caso in cui la maggioranza di entrambe le Camere del Parlamento approvi la richiesta di fiducia del capo del Governo, la sua attività procede, ma se anche una sola delle due nega la propria approvazione, anche solo per un voto, l’Esecutivo entra in ordinaria amministrazione.

Quelle sin qui illustrate sono le possibili cause di decadenza parlamentare del Governo, ma la crisi può altresì essere anche extraparlamentare: in qualsiasi momento e per qualsiasi ragione, sia essa politica o di altra natura, il Presidente del Consiglio è sempre libero di rassegnare le proprie dimissioni al Presidente della Repubblica e di avviare quindi l’iter successivo alla caduta del Governo, che non sempre è costituito dalle elezioni anticipate.

In nessun il Paese può restare senza Governo, neppure quando questo è sfiduciato o si dimette: onde evitare il vuoto, il Governo che non goda più della legittimazione a proseguire la propria opera deve restare in carica per curare l’ordinaria amministrazione dello Stato, ossia deve rimanere e prendere le decisioni normali per mantenere la vita dello Stato, ma non può più proporre provvedimenti legislativi o approvare decisioni, decreti ministeriali e in generale atti che abbiano una qualsiasi valenza decisionale, in attesa che ad esso subentri il nuovo Esecutivo.
Come già più volte ribadito, il Governo è indipendente dal Parlamento e quello delegittimato può non essere l’unica espressione possibile della maggioranza parlamentare: prima di ricorrere alle elezioni anticipate, è quindi necessario ed auspicato dalla prassi che si proceda ad un altro passaggio, ossia un nuovo incarico esplorativo affidato dal Presidente della Repubblica ad un diverso soggetto, affinché questi sondi le forze politiche presenti in Parlamento e trovi una maggioranza disposta a sostenere il nuovo possibile esecutivo, che potrebbe essere ipoteticamente la stessa che aveva sostenuto il precedente Governo, come avvenuto nella Legislatura che ha sostenuto i Governi Letta, Renzi e Gentiloni, o una nuova in diversa composizione precedentemente non esplorata per le più varie ragioni e continuare così con un nuovo Governo, voce ed espressione di una rappresentanza nuova o anche di sostegno ad un Governo Tecnico o cosiddetto di scopo, fino al termine della Legislatura, ossia del mandato parlamentare.
Almeno in via ipotetica, dal momento che, come menzionato nell’esempio sopraccitato, è possibile che anche il nuovo Governo formato entri in crisi nei modi appena visti e debba ricorrere nuovamente all’iter fin qui illustrato.
Solo ove le consultazioni non dessero alcun possibile esito favorevole e non fosse quindi in alcun modo possibile rinvenire una nuova maggioranza, non resterebbe che lo strumento finale da parte del Presidente della Repubblica: lo scioglimento delle Camere e la fissazione di una nuova data per le elezioni anticipate, che non possono tenersi a meno di tre mesi dalla data del provvedimento di scioglimento. Fino alle nuove elezioni e quindi fino alla nomina e all’insediamento dei nuovi Parlamentari, non sarebbe più solo il Governo, ma anche il Parlamento stesso ad entrare nella cosiddetta ordinaria amministrazione.

martedì 5 febbraio 2019

Serve davvero regolamentare la prostituzione?

In Italia non c'è forse tema più controverso e discusso di quello della prostituzione. Quello che però non viene considerato è che sull'argomento c'è una tale massa di punti di vista e di considerazioni contraddittorie tra loro da essere anche a volte inconciliabili, spesso adducendo quadri e ragioni storiche e giuridiche, proponendo modelli stranieri come soluzioni ideali e cercando di imporre ragionamenti ideologici fuori dalla realtà e che non fanno il bene di nessuno.

Tuttavia prima di poter trovare una soluzione, bisogna innanzitutto riuscire ad inquadrare la fattispecie ed il problema per come si è evoluto e per come si pone attualmente.
Storicamente la prostituzione si può definire come lo scambio di un servizio di prestazioni sessuali in cambio di denaro o di altra utilità tra persone adulte e consenzienti. In seguito, il carattere dell'elargizione delle utilità è stato escluso e si è concentrato sempre più esclusivamente sull'aspetto pecuniario, escludendo formalmente tutti gli aspetti di appropriazione di altri beni materiali e di utilizzo del corpo e del sesso per ottenere lustro e posizioni altrimenti non raggiungibili, lasciando solo alla morale il giudizio su tali vicissitudini.
Quello che ad oggi risulta piuttosto confuso è il fatto che in Italia il mestiere della prostituzione non è illegale, non del tutto quantomeno: esso è regolare e legittimamente esercitato solo ed esclusivamente se effettuato in forma privata ed in un luogo di privata dimora, senza collaborazioni o intermediazioni di sorta e senza nessuno che si intaschi i profitti derivati da tale attività, nemmeno se chi si prostituisce li cede spontaneamente. Casi diversi potrebbero configurare i reati di favoreggiamento e di sfruttamento della prostituzione... con picchi paradossali nell'applicazione della normativa: per esempio la ricerca di una collega da parte di una prostituta stessa per poter meglio esercitare il mestiere potrebbe essere imputata come un tentativo di favoreggiamento. O ancora, il pagamento del compenso di una prestazione sessuale è visto in Italia come "obbligazione naturale" che può non essere adempiuta in quanto è priva di obbligatorietà giuridica e una volta pagato il prezzo non c'è modo o ragione giuridica per chiederne la restituzione, ma una prestazione goduta senza corrispondere il pagamento concordato può essere sanzionato come violenza sessuale, in quanto la prestazione non sarebbe stata altrimenti elargita senza la promessa poi non mantenuta e l'inganno del o della cliente integra giuridicamente quella coercizione che costituisce la violenza psicologica alla base del reato. Altresì il sesso con i minori, anche in cambio di un corrispettivo, è strettamente vietato e viene severamente punito non solo chi agevola, istiga o induce con qualsiasi mezzo i minori, ma anche chiunque paghi per avere favori e atti sessuali con una persona minorenne.

Come si può dedurre agevolmente da quanto descritto finora, il quadro normativo italiano in materia è particolarmente frammentato e confuso, quando non addirittura contraddittorio. E le conseguenze di questa regolamentazione frastagliata e disarmonica, piena di zone grigie più che di chiaroscuri legislativi, sono sotto gli occhi di tutti e non solo nelle strade di periferia o sulle strade provinciali alle più varie ore del giorno e soprattutto della notte.
C'è chi ritiene che la famosa Legge Merlin abbia voluto dare una soluzione ed un colpo di spugna alla materia e non si spiega come si sia arrivati a questa situazione, ma la stessa osannata legge non è stata un principio di civiltà come si è detto in passato, bensì è una delle cause della situazione attuale: è facile infatti dimenticare la situazione precedente a quella dell'emanazione della legge stessa, una situazione effettivamente molto deprimente e per certi versi drammatica, in cui le prostitute, per ragioni di finta morale spacciate per necessità di ordine pubblico, erano tutte rigorosamente e sistematicamente schedate in Questura e chiunque iniziasse in qualsiasi modo tale mestiere, non poteva poi uscirne e liberarsi di tale mondo per intraprendere qualsiasi altra carriera. Ancora oggi è purtroppo difficile tale cambiamento, ma almeno le difficoltà sono dovute alle malelingue e all'inciviltà di certi clienti, di moralisti e di perbenisti strepitanti e non c'è più la bollatura formale che era anche un inspiegabile e controverso stigma legale, prima ancora che sociale.
La Legge Merlin ha ordinato la chiusura delle cosiddette "case chiuse" e la cancellazione dei citati schedari delle Questure, andando a colpire quelli che nel bene e nel male erano solamente i simboli di un problema ben più profondo, radicato e tutt'altro che risolto: quello della dignità personale e sociale di chi esercita un mestiere ancora oggi visto come spregevole e socialmente poco o per nulla accettato. In verità, l'art. 7 della legge medesima ha cercato di dare una minima definizione in questo senso, ma è purtroppo rimasta lettera morta tanto quanto l'istituzione dell'apposito corpo di indagine dedicato in via esclusiva alla materia.
Spazzare via un simbolo tuttavia non riduce e non elimina il problema, ma consente solo di lustrare la facciata e forse la coscienza per qualche tempo, fino a quando il problema non si ripresenta in una forma anche peggiore della precedente. In questo caso, il problema è la coesistenza di due forme di prostituzione: una libera, autonoma, privata ed indipendente ed un'altra invece oggetto di tratta, sfruttamento e oppressione oltre ogni dignità e diritto umano, ad opera soprattutto, ma non solo, di manovalanze criminali straniere.
Con la chiusura delle case di tolleranza si è tolta ogni possibilità di dare una tutela fisica, giuridica, eocnomica e sanitaria a chiunque eserciti tale mestiere e ha fatto abdicare allo Stato a qualsiasi forma di controllo su tale situazione e posizione, permettendo il anzi il dilagare di nuove forme di controllo e di sfruttatori: la malavita organizzata, non solo di origini nostrane, ha avuto infatti campo libero e terreno fertile per organizzare tratte di persone da avviare alla prostituzione e territori dove esercitarla impunemente, senza riguardo a diritti e a volte anche all'età delle persone coinvolte. Allo stesso modo, la rinuncia a qualsiasi forma di controllo su tale mestiere ha comportato anche una rinuncia all'intero fiorente mercato del sesso, che mai ha conosciuto crisi e verosimilmente mai ne conoscerà per ragioni che non sono solamente giuridiche e che non pare opportuno approfondire in questa sede: quel che qui importa rilevare è che lo Stato ha più o meno consapevolmente rinunciato anche a regolamentare un mercato oggi invece esposto ai più ampi capricci, anche agghiaccianti, di chiunque abbia voglia di insinuarsi in questo ambito e ha rinunciato a tassarlo in maniera equa e regolare e a sottrarre altresì fondi e strumenti a criminali di ogni sorta e calibro, che approfittano dell'enorme ipocrisia e del diffuso velo sugli occhi per arricchirsi alle spalle della legge e sulla pelle delle persone.

In definitiva, per rispondere alla domanda che ha dato origine a questo lungo approfondimento, la risposta è che servirebbe davvero regolamentare il mondo della prostituzione in Italia: servirebbe a creare maggiore ordine nel quadro normativo italiano, a togliere ogni halibi a certe fronde di benpensanti e a cancellare una colpa storica e politica, che con la scusa ideologica di dare dignità ha finito invece per toglierla, a gettare gente sulla strada e ad aprirla a fenomeni aberranti. Servirebbe altresì alle casse erariali per trovare nuovi equilibri nella tassazione collettiva e a sottrarre risorse a soggetti ed organizzazioni che definire criminali sarebbe eufemistico e a controllare e a proteggere sotto ogni profilo chi, indipendentemente dal fatto di essere uomo, donna o transessuale, decida con tutta coscienza e consapevolezza di dedicarsi ad un mestiere tanto antico quanto solo apparentemente facile e comunque più decoroso ed onesto del dedicarsi ad una vita criminale.
Come regolamentare questo ambito è una questione completamente diversa e non è possibile fornire pareri o indicazioni senza trascendere anche nella sfera politica che è rimessa al Legislatore, ma occorre dare una nuova forma di regolamentazione, in quanto la semplice abrograzione della Legge Merlin, pur con tutti i danni che sono scaturiti da tale provvedimento, produrrebbe l'effetto nefasto di far tornare in vigore la regolamentazione previgente e farebbe quindi riemergere una serie di provvedimenti e di controlli che è bene che rimangano un retaggio del passato da non ripetere.
Per tutta la serie di ragioni sopra esposte, è bene che qualcosa si faccia e l'Italia non permanga nel limbo grigio in cui amministratori locali si muovono in ordine sparso con idee e progetti tanto contraddittori quanto l'ordinamento attuale e che nulla riescono a fare per risolvere i tanti, troppi problemi legati al sesso a pagamento.