domenica 15 maggio 2022

I quesiti del referendum sulla giustizia 2022

In maniera quasi silenziosa ed abbastanza sibillina, il giorno 12 giugno 2022 si terrà un referendum con cinque quesiti in tema di giustizia.
Come in quasi tutte le altre occasioni referendarie, anche quello del prossimo mese è una consultazione popolare in cui verrà chiesto al popolo italiano se sia favorevole o meno all'abrogazione di cinque disposizioni legislative, mediante altrettanti quesiti... e come da triste tradizione, non solo non si è fatta abbastanza discussione pubblica sul tema e sui singoli quesiti, ma in particolare la formulazione delle domande è decisamente specifica e richiede molta competenza tecnica perché se ne comprendano bene i riferimenti e la portata.
Pare quindi utile cercare di analizzare al meglio i vari quesiti per cercare di avere un quadro più chiaro possibile del significato di ognuno di essi, fermo restando che la loro formulazione integrale è già disponibile su diversi portali online e che pertanto non sarà riportata anche in questo approfondimento.
Pare doveroso premettere che i vari quesiti verranno trattati in ordine di facilità di trattazione e non di presentazione.


Quesito sull'incadidabilità

Il primo dei quesiti da esaminare è quello relativo al decreto legislativo 235 del 31 dicembre 2012 ed è in apparenza facile: si chiede agli italiani se si voglia abrogare un decreto che, scritto in questo modo, può suonare totalmente anonimo e pressoché indifferente, uno tra i tanti esistenti. Pure la specificazione del titolo ufficiale del decreto legislativo, ossia il fatto che si tratti di un Testo Unico, potrebbe non suggerire nulla all'osservatore casuale.
Tuttavia il decreto in questione non è così privo di importanza nella storia legislativa recente, perché di fatto si tratta di uno dei quattro decreti che hanno dato attuazione a quella che è meglio nota come Legge Severino e, nello specifico, quello su cui si concentra il quesito referendario è il decreto che prevede la decadenza e l'incandidabilità per sei anni di chiunque ricopra un incarico pubblico o una carica politica (persino quella di membro italiano del Parlamento Europeo) e venga condannato penalmente a più di due anni di reclusione per un reato non colposo. Ci sarebbe da chiedersi perché venga richiesta l'abrogazione di quella che sembra una norma di un certo peso e calibro, adottata dal Governo Monti per cercare di contrastare il fenomeno della corruzione nei pubblici uffici e non solo.

La ragione potrebbe essere di carattere generale e bisogna ricordare come sia già previsto dal Codice Penale che i giudici siano in grado di infliggere non solo una condanna pecuniaria o alla reclusione, ma anche delle ulteriori sanzioni accessorie per rendere più efficace la sanzione principale qualora il caso richieda maggiori attenzioni... e tra queste misure accessorie vi sono anche la sospensione o addirittura l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, che comportano di per sé la decadenza e l'impossibilità di assumere nuovamente qualsiasi carica pubblica. Il decreto in questione invece ha reso automatica questa sanzione accessoria, togliendo ogni facoltà ai giudici di studiare il caso specifico con una presunzione assoluta di gravità ed indegnità a ricoprire una carica pubblica per la condanna riportata, ma si tratta comunque di un testo di una certa importanza e produttiva di numerosi altri effetti rilevanti contro la corruzione e contro coloro che riportano condanne per reati non colposi, ossia contro coloro che comunque hanno voluto commettere un reato e hanno preparato la loro azione criminosa.
La Legge Severino è forse perfettibile, come molte leggi attualmente in vigore: sarebbe auspicabile che venga aggiornata ai cambiamenti intervenuti in dieci anni di pratiche e di casistiche giudiziarie o è più utile distruggere l'intero testo del decreto legislativo per dare un maggior potere discrezionale ai giudici? Il 12 giugno l'ardua sentenza popolare...


Quesito sulla custodia cautelare

Un tema da sempre piuttosto spinoso in tema giudiziario riguarda la cosiddetta “carcerazione preventiva” soprattutto quando si verificano delitti di particolare gravità, omicidi in primis.

Quella della custodia cautelare in carcere e quella appena più tenue dei cosiddetti “arresti domiciliari” sono misure cautelari che possono essere adottate, assieme ad altre misure più tenui, dal Giudice per le Indagini Preliminari (meglio noto come GIP) con provvedimenti che devono essere sempre motivati. A rigor di legge, tali provvedimenti sono delle misure da prendersi solo ove strettamente necessario per garantire il miglior svolgimento delle indagini e devono essere adottati per prevenire ed impedire che l'indagato possa porre in essere tre specifici pericoli per le indagini: fuga, inquinamento delle prove o reiterazione del medesimo reato.

Per dovere di cronaca, si sono registrati casi in cui i provvedimenti contenevano tutte e tre queste ragioni nelle motivazioni, ma si tratta altresì di casi limite che non servono a porre l'attenzione su quello che è il nucleo principale della richiesta referendaria: eliminare la reiterazione del reato dalle possibili cause per cui un GIP possa incarcerare qualcuno prima ancora dell'inizio del processo, a volte anticipando di fatto la pena.

La richiesta referendaria può essere encomiabile negli intenti, ma non se ne comprende bene l'utilità o la necessità: togliere ai Giudici per le Indagini Preliminari la possibilità di adottare una motivazione non porterebbe alcun reale cambiamento al quadro attuale, in quanto non intaccherebbe infatti la possibilità che si possa comunque abusare delle due ragioni rimanenti non toccate dal quesito in esame; allo stato attuale, evitare l'eccesso di carcerazione preventiva può passare solo per altre misure che non sono attualmente previste da alcuna legge e che devono essere oggetto di una riforma della giustizia più organica in tal senso.

Come per gli altri quesiti, la sentenza popolare arriverà il 12 giugno.


Quesito sulla candidatura al CSM

Un altro quesito è inerente un articolo specifico della legge 195 del 24 marzo 1958.

Questa è una legge di ordinamento giudiziario, che non ha un'influenza diretta sulla vita di tutti i giorni, ma ha una certa importanza invece sulla regolamentazione della vita del Consiglio Superiore della Magistratura, altrimenti noto come CSM, ossia l'organo di autogoverno della Magistratura Italiana.

Al momento attuale, il CSM è composto per un terzo dai cosiddetti “membri laici” (ossia personalità che non rivestono alcuna carica in magistratura) e per due terzi invece da magistrati in carica e la norma di cui si chiede l'abrogazione riguarda proprio questi ultimi, in quanto stabilisce e regola un requisito forse poco noto che però viene chiesto ad un magistrato per presentare la propria candidatura come membro del CSM: qualunque magistrato che voglia candidarsi deve infatti ottenere preventivamente tra le 25 e le 50 firme di approvazione della sua richiesta. Questa disposizione, nata forse per dare un freno alle candidature troppo numerose ed indistinguibili tra loro, ha però favorito nel corso del tempo la formazione di quelle che sono oggi le varie e tristemente note correnti all'interno del CSM, che hanno portato ad una progressiva ingessatura e politicizzazione dell'organo di autogoverno stesso e alla sentita necessità di una riforma dello stesso.

Con il quesito referendario si vuole quindi chiedere agli italiani se continuare a dare fiducia alle correnti interne alla magistratura e sperare che cambino indirizzo oppure se permettere a tutti i magistrati di concorrere su un piano di parità per entrare a far parte del Consiglio Superiore della Magistratura e dare il loro concreto apporto indipendentemente dall'adesione o meno ad una corrente e ad una visione più o meno politicizzata e in un certo senso corporativa.


Quesito sulla valutazione dei magistrati

Come accennato nell'esame del quesito precedente, il CSM è composto in una parte minoritaria di membri “non togati”, ossia di personalità quali avvocati o professori universitari di Giurisprudenza che per vari meriti o per previsione espressa della legge possono essere chiamati a svolgere un ruolo all'interno del Consiglio Superiore della Magistratura.

Uno dei compiti principali del CSM è la gestione e valutazione delle carriere dei singoli magistrati, ma la funzione di valutazione delle carriere per qualche ragione è sempre stata attribuita solo ai membri “togati” e questo aspetto ha spesso e volentieri generato possibilità di giudizi non equi all'interno dell'organo, dettate magari anche solo dall'appartenenza o meno ad una data corrente, o comunque ha favorito logiche corporative nello svolgimento di vari eventi e di varie valutazioni.

Il quesito referendario non cita niente di queste situazioni, ma propone solo delle sforbiciate ad alcune parole contenute in quella che alla stragrande maggioranza degli italiani non può che apparire come una generica e ancora una volta anonima legge del 2006. L'unico indizio dell'importanza di questa legge la si può desumere dal suo titolo, che reca reca una voce importante, ossia “nuova disciplina dei Consigli Giudiziari”. Si dovrebbe dare ampio spazio ad una digressione più vasta per dare un'idea più completa del significato di questo titolo, ma non è purtroppo questa la sede adatta: questi Consigli Giudiziari, in estrema sintesi, altro non sono che organi territoriali del CSM nei quali però i membri laici non hanno al momento alcun potere riguardo alla valutazione dell'operato dei magistrati e sorprende non poco che questo potere non sia stato ancora attribuito in parità e con la dovuta equità anche a questi membri non togati.
Può sembrare strano che bastino pochi tagli per grazia popolare a garantire questa parità, ma si sa che la legge a volte è fatta di cavilli piccolissimi, che però hanno conseguenze anche molto grandi...


Quesito sulla separazione delle carriere

Se poco sopra si è parlato di “qualche sforbiciata” ad una legge, il quesito in esame propone invece una serie di richieste di tagli e di abrogazioni che diventa sproporzionata e vertiginosa e la formulazione del quesito diventa una vera e propria selva oscura di riferimenti normativi, tanto che pare difficile riuscire a valutare concretamente l'impatto di questa serie di tagli, che vanno ad impattare sulle norme più antiche ancora in vigore in Italia che regolano l'ordinamento giudiziario e su tutte le sue successive modificazioni.

Lo scopo di questa enorme ricerca di parole e cavilli nella loro posizione e nella loro funzione all'interno del tessuto normativo hanno nominalmente uno scopo a lungo perseguito da varie parti politiche e da vari Governi e mai effettivamente realizzato con un'apposita riforma, che rimarrebbe comunque d'obbligo anche in caso di approvazione del referendum: la separazione delle carriere dei magistrati.

Com'è noto, sia i Giudici sia i Pubblici Ministeri fanno tutti parte della medesima Magistratura e sono comunque colleghi, condividono le stesse strutture e sono tutti regolati e sottoposti alla medesima autorità del Consiglio Superiore della Magistratura... e proprio in virtù di questo rapporto, allo stato attuale è possibile che un Magistrato possa svolgere funzione giudicante (ossia essere un giudice che emana le sentenze alle varie cause e controversie) e poi decidere di passare a svolgere funzione requirente (ossia l'attività di Procuratore della Repubblica o Pubblico Ministero) e viceversa. Vi sono dei limiti interni previsti dalle norme di ordinamento giudiziario, ma riguardano prevalentemente limitazioni a svolgere queste funzioni in ambito civile o penale, senza bloccare mai la possibilità di passare alternativamente ad una delle funzioni giudicante o requirente.

Il quesito referendario non può realizzare una riforma compiuta di questo aspetto non secondario dell'organizzazione della giustizia, ma ciò nonostante vuole proporre una mastodontica opera di tagli mirati che, se realizzati, potrebbero almeno impedire ai magistrati di cambiare funzione più volte nel corso della propria carriera e favorire così una miglior specializzazione e formazione del sapere giuridico. Una simile operazione, qualora venisse approvata dal referendum del 12 giugno, non sarebbe tuttavia la fine di un problema abbastanza storico e protratto a lungo nella storia d'Italia, ma porrebbe comunque una necessità ancora più urgente di riformare questo settore con una legge fatta ad hoc per dare maggior compiutezza alla volontà popolare. Inoltre è importante segnalare che l'approvazione del referendum non potrebbe comunque sostituire l'opera del Legislatore nel regolare la separazione delle carriere in tutti quegli aspetti funzionali ed infrastrutturali, oltre che per rimediare ad un vero e proprio terremoto che si produrrebbe con tutti questi tagli al testo dell'ordinamento giudiziario.


Come sempre, l'iniziativa Parliamo di Diritto vuole cercare di dare la maggior chiarezza possibile e per il presente contributo si è avvalsa della collaborazione dell'Avv. Stefania Campa.

mercoledì 20 aprile 2022

La reale portata dell'art. 11 della Costituzione

 

L'Italia è un Paese democratico in cui vige libertà di opinione, su qualsiasi tema e con quasi qualsiasi tono: inutile ricordare, forse, che certi modi di esprimersi non siano comunque ammessi dalla legge e soprattutto nel codice penale siano presenti dei limiti, come ad esempio per la diffamazione.

Vi è tuttavia una precisazione che appare opportuna: il fatto che qualcosa non sia vietato dalla legge non impone automaticamente la più totale libertà di parlare senza freni di ogni argomento possibile ed immaginabile e vi sono anzi temi e sfere che meriterebbero un'attenzione ed una moderazione di tempi e termini ed un'articolazione delle argomentazioni in cui sarebbe utile lasciare la parola invece di prenderla a sproposito sui social network.

Una di queste aree è sicuramente quella del diritto costituzionale: è importante che se ne parli e che la più ampia maggioranza della popolazione conosca almeno i dettami della Costituzione, che è la summa delle regole ed il pilastro fondamentale dell'ordinamento italiano, soprattutto affinché molti possano essere consapevoli di quelli che sono i diritti fondamentali garantiti dallo Stato e sappiano riconoscere chi strumentalizza e piega le regole ai propri fini o alle proprie ideologie.

Una delle regole più attualmente dibattute, ignorate e fraintese è, inspiegabilmente, quella dell'art. 11 della Costituzione: detta norma è infatti recentemente usata come riferimento massimo da quelle voci che vorrebbero una posizione al più neutralista dell'Italia nel recente scenario internazionale, mentre in altri casi analoghi le proteste non sono state tanto roboanti o confusionarie. Tuttavia tale riferimento è radicalmente sbagliato e il testo dell'articolo 11 non ha una portata limitata al mero non intervento nei conflitti altrui e nel non fare guerre: non solo la Storia più o meno recente smentisce questo assunto (basti pensare alla partecipazione di contingenti italiani a missioni internazionali nelle guerre del Kosovo, dell'Iraq o dell'Afghanistan), ma è anche e soprattutto il testo integrale della norma a negare queste illazioni infondate.

Per comprendere il motivo per cui tale "opinione" non si può ritenere tale, occorre andare ad esaminare l'articolo 11 nel suo complesso. Innanzitutto occorre osservare che è esso collocato fra i principi fondamentali del testo Costituzionale e quindi in quel nucleo essenziale da cui poi si diramano molte delle altre regole che sorreggono l'ordinamento intero: non si tratta quindi di un principio secondario o banale nemmeno all'interno del testo costituzionale e proprio per questo è utile avere un'attenzione maggiore del dovuto non solo al testo, ma anche al contesto storico in cui esso è stato forgiato.

Bisogna ricordare infatti che la Costituzione è stata scritta in un periodo storico molto preciso, al termine di quella che oggi è ben nota come Seconda Guerra Mondiale e durante la ricostruzione del Paese dopo un ventennio di dittatura. Sarebbe ingiusto tuttavia non ricordare come non fosse solo l'Italia in una fase delicata di ricostruzione, ma era praticamente il mondo intero che si stava riassestando e stava trovando nuovi equilibri e uno di questi tentativi era la nascita dell'ONU, che sostituiva la precedente inefficace Società delle Nazioni, che non era stata in grado di prevenire o impedire in alcun modo la follia nazista e lo scoppio del conflitto mondiale.

È in questo quadro che i principi fondamentali sono stati ideati e trascritti dall'Assemblea Costituente ed è proprio in memoria e contro la ripetizione non solo degli eventi della Seconda Guerra Mondiale, ma anche delle guerre coloniali avvenute durante il c.d. Ventennio, che è stata scritta la prima parte dell'articolo in questione.

La norma infatti recita testuali parole: 

L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.

La motivazione di questa formulazione si può rinvenire già nella relazione al progetto del testo costituzionale del 1947, quando viene spiegato senza mezzi termini come “rinnegando recisamente la sciagurata parentesi fascista l'Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli.
Come si può chiaramente capire leggendo integralmente la norma e la relazione al testo che la accompagna, l'Assemblea Costituente ha voluto dare un taglio netto con le passate politiche aggressive ed espansionistiche, condannando espressamente ed apertamente la guerra di conquista che aveva caratterizzato il regime precedente alla neonata Repubblica Italiana; inoltre il dettato costituzionale delegittima radicalmente ogni possibilità che l'Italia attacchi un Paese straniero per risolvere con la forza militare una questione solo ed esclusivamente interna di tale altro Stato.
Quanto viene invece frainteso da una serie di soggetti che si definiscono pacifisti, senza davvero esserlo, nasce da una lettura molto superficiale e che si arresta alle prime parole dell'art. 11, ossia che “l'Italia ripudia la guerra”: questa lettura è invero fuorviante, perché se così fosse, non dovrebbe nemmeno esistere in Italia un esercito vero e proprio, un Codice Militare o una forza armata e soprattutto implicherebbe l'assurdità totale che la Repubblica abbia rinunciato per principio fondativo anche a difendersi in caso di aggressione da parte di altre Nazioni. Per fortuna questa è solo una lettura drammaticamente storpiata e frutto di una visione distorta della realtà e del mondo.
Ciò che il dettato costituzionale di conseguenza ammette è invece la guerra difensiva, ossia la possibilità di difendersi da attacchi ingiustificati o pretestuosi lanciati da altri Paesi e non è da escludersi nemmeno la possibilità di intervenire in difesa di altri Paesi che abbiano subito un simile attacco, soprattutto in virtù di trattati o patti internazionali o in accordo ad alleanze sovranazionali di cui l'Italia sia parte integrante.

Tale assunto è dato dalla seconda parte dell'art. 11 della Costituzione, di cui giova riportare ancora una volta il testo integrale:

[l'Italia] consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Ancora una volta occorre tornare ad esaminare il contesto storico per cercare di comprendere la ragion d'essere e la portata del dettato normativo: all'epoca in cui il testo fondamentale della Repubblica è stato scritto, l'ONU era stata fondata da pochissimi anni e stavano nascendo anche altre organizzazioni ed alleanze a carattere politico, economico e militare e rifiutare l'opportunità di avere aiuti in tema di commercio e difesa internazionali e soprattutto di dimostrare a tutti che l'Italia aveva cambiato volto rispetto al fascismo per incarnare un mero pacifismo passivo sarebbe stato oltremodo insensato. È stato invece grazie all'art. 11 che l'Italia ha potuto entrare a far parte di organizzazioni tutt'oggi vigenti, come l'ONU, la NATO o quella che oggi è l'Unione Europea.

Quanto alla portata pratica ed effettiva, la norma non fa altro che statuire quello che è poi una pratica delle relazioni internazionali quando si viene ad esaminare l'adesione ed il rapporto tra membri di una qualsiasi organizzazione o ente di natura non privatistica tra Nazioni diversi. Per citare ancora la relazione all'art. 11 del 1947, “Stato indipendente e libero, l'Italia non consente, in linea di principio, altre limitazioni alla sua sovranità, ma si dichiara pronta, in condizioni di reciprocità e di eguaglianza, a quelle necessarie per organizzare la solidarietà e la giusta pace fra i popoli.


Basta saper leggere il testo costituzionale nella sua interezza per comprendere con assoluta chiarezza e senza possibilità di dubbio come l'Italia in questo periodo storico abbia piena libertà di agire con la più ampia discrezionalità senza aggredire per prima nessun'altra Nazione e le decisioni in tema di politica internazionale non possono mai essere prese alla leggera, ma dire che siano a priori incostituzionali ed illegittimi gli aiuti e le forniture di messi militari ad un altro Paese aggredito o un futuro intervento armato in uno scenario caldo, soprattutto se deciso in seno ad un'organizzazione internazionale ed in presenza di ragioni e violazioni comprovate, è frutto, nella migliore delle ipotesi, di una grave e colpevole ignoranza in materia di legge e principi costituzionali.